Dominus Iesus. Una lettura evangelica

(con particolare riferimento alla IV sezione su “Unicità e unità della Chiesa”)

15/11/2000

La DI è un documento “interno” al cattolicesimo anche se, trattando tra l’altro di ecumenismo, è naturale che sia stato letto anche al di fuori della chiesa cattolica. E’ da apprezzare, pertanto, l’iniziativa del SAE volta ad ascoltare anche una voce evangelica, non chiamata direttamente in causa dal documento ma comunque un soggetto che è interessato ai temi della DI. Farò qualche considerazione generale sul documento per poi concludere con qualche riflessione sulla portata teologica ed ecumenica dello stesso.

1. Innanzitutto, è da notare lo stretto collegamento della DI con il magistero recente della chiesa. Di fatto la DI non è un testo a se stante ma una raccolta di testi cuciti insieme. Al di là del numero di citazioni magisteriali presenti nel testo (102) è da notare come gli elementi caratterizzanti del documento (che sono stati quelli più aspramente criticati da parte protestante) siano ripresi direttamente dal Vaticano II e dalle recenti encicliche (in particolare la “Redemptoris missio”). Per parafrasare il titolo di un celebre romanzo di Remarque, si potrebbe dire: “Niente di nuovo sul fronte cattolico”! Risultano pertanto sproporzionate le reazioni critiche di coloro che hanno visto nel documento una “novità” reazionaria all’interno della chiesa. Al contrario, la DI cita e ricita un magistero trito e ritrito.

2. E’ da apprezzare anche la chiarezza del linguaggio della DI. Finalmente un documento sull’ecumenismo che non indulge nella pratica dell’“ecumenichese”, con tutte le sue finezze retoriche che nascondono i problemi invece di affrontarli! Il gergo ecumenico, a volte, può risultare un ostacolo al dialogo perché vuole fare quadrare il cerchio. La DI, invece, può non essere “ecumenicamente corretta” ma è teologicamente piana. La chiesa cattolica, con tutta la sua sapienza dialettica, parla in modo comprensibile. E’ un parlare duro, spigoloso, da primo della classe, ma è chiaro. Nella babele ecumenica, ci voleva.

3. La DI si caratterizza anche per la profonda onestà intellettuale che la pervade. L’agenda ecumenica della dichiarazione è limpida: in soldoni, si può riassumere così: la chiesa cattolica, nell’aprirsi al dialogo ecumenico, non fa sconti di alcun tipo, men che meno nel campo dell’ecclesiologia. La chiesa cattolica non si “protestantizza”, nel senso che non alleggerisce la sua autocomprensione ecclesiologica. Essa fa ecumenismo nella pienezza del suo considerarsi la chiesa e salvaguardando l’integrità della sua ecclesiologia. Lo scoglio ecclesiologico non viene bypassato, né addolcito, né ridimensionato. L’impianto ecclesiologico attuale è un limite invalicabile. Paradossalmente, anche questo aiuta nel dialogo perché chiarisce le posizioni e gli obbiettivi.

4. Infine, qualche osservazione di merito teologico specialmente sul n.17. Si ribadisce il “governo” del Successore di Pietro sull’unica chiesa e si dice che il primato è del papa “oggettivamente”. Ora, di fronte a ciò che si dà oggettivamente, non c’è altro da fare che arrendersi all’evidenza. Nella “Ut unum sint”, l’attuale papa aveva espresso la disponibilità a modificare le “forme” del primato ma non la “sostanza”, in nessun modo. Se la “sostanza” del papato è data “oggettivamente”, l’ecumenismo della DI sembra essere un rigurgito della “Mortalios animos”: tornate all’ovile del papa. Può l’ecclesiologia darsi “oggettivamente”? Non si dovrebbe dire piuttosto “biblicamente” o “storicamente”? E’ l’ecclesiologia un dato quasi ontologico? E’ possibile una conversione ecumenica delle attuali strutture di governo della chiesa cattolica, date le sue premesse “oggettive”?

5. Nel n.17 della DI e nella “Nota sul termine Chiese sorelle”, si ritorna sulla questione di quali siano gli elementi caratterizzanti l’ecclesialità di una comunità cristiana. Si ribadisce che, tra gli altri, essi sono da ricercare nell’episcopato valido e nell’integra sostanza del mistero eucaristico. Di fronte a questi criteri, molte chiese evangeliche sono propriamente delle “comunità” cristiane, delle chiese di serie B. Ma chi ha il diritto di dare le patenti di ecclesialità agli altri? E’ ancora possibile considerare una forma storica di governo della chiesa (l’episcopato) una «nota ecclesiae» aggiuntiva ed essenziale? Certamente, tutto ciò calza con il darsi “oggettivo” dell’ecclesiologia cattolica. Lo scenario ecumenico della DI prevede una resa unilaterale ed incondizionata delle chiese deficienti al governo del papa?

 

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