La venerazione e l’invocazione dei santi in prospettiva evangelica

In dialogo con Carlo Colonna

La venerazione dei santi è uno degli argomenti che sono stati al centro della secolare controversia tra cattolici e protestanti. Nell’immaginario evangelico, ispessito da secoli di diatribe e – nel caso dell’Italia – di persecuzione, il culto dei santi è la metafora riassuntiva e vivente del cattolicesimo, il suo paradigma teologico manifestato alla massima potenza nel campo della devozione, il ricettacolo del “paganesimo” romano filtrato nella pratica spirituale. Nel linguaggio popolare dell’apologetica che numerosi cattolici utilizzano ancora ed in cui molti evangelici s’identificano con una certa fierezza, una delle frasi che riassumono il senso dello smarcamento protestante rispetto al cattolicesimo è proprio che “gli evangelici non credono ai santi né alla madonna”. Il richiamo a questa sorta di agnosticismo evangelico esprime in modo discutibile ma chiarissimo la presa di posizione nei confronti di una pratica che, in ambito evangelico, viene avvertita come assolutamente estranea all’evangelo e che, in ambito cattolico, viene vice versa considerata come intrinsecamente legata alla religione cristiana. Una scorsa anche superficiale alla letteratura controversistica di parte evangelica deve rilevare il fatto che la venerazione dei santi sia un tema ricorrente nella percezione evangelica del cattolicesimo e nella sua critica allo stesso . Questa non dev’essere considerata un’ossessione polemica recente né tipicamente italiana in quanto è iscritta in numerose confessioni di fede della Riforma e del mondo evangelico contemporaneo nelle quali il rifiuto della venerazione dei santi è talmente importante da necessitare una specifica trattazione o comunque un’esplicita menzione . Oggi come ieri, quindi, la venerazione dei santi costituisce uno dei punti “caldi” della demarcazione tra fede cattolica ed evangelica sia sul piano teologico-dottrinale che su quello devozionale. Se si allarga il fuoco a questioni immediatamente connesse, come ad esempio il culto mariano e la venerazione delle reliquie, il senso di estraniamento evangelico si irrigidisce ancor più ma non fa che confermare l’idiosincrasia di fondo che viene avvertita da parte evangelica nei confronti dell’universo di fede in cui si colloca la venerazione dei santi.

1. Per un dialogo teologico

Accettare di dialogare sulla questione, quindi, obbliga a fare i conti con un passato tutt’altro che pacificato e con un presente tendenzialmente turbolento. Se questo è il retroterra storico e l’attuale scenario di riferimento, quale senso può avere un dialogo se non la riproposizione dell’antica e radicata controversia? Perché il dialogo non sia semplicemente un gratuito pour parler su tematiche d’interesse religioso, è necessario fare alcune considerazioni preliminari che collochino lo sforzo dialogico in una prospettiva di chiarezza e di reciproco ascolto delle rispettive ragioni. Nel dialogare si devono, per quanto possibile, accantonare due approcci che, per quanto apparentemente distanti l’uno dall’altro, sono entrambi nocivi alla fruttuosità del confronto. Il primo vicolo cieco da evitare è pensare che la venerazione dei santi sia un aspetto teologicamente marginale del confronto tra cattolici ed evangelici, un tema minore rispetto, per esempio, alla giustificazione per fede, tanto per citarne uno che è stato oggetto di un lungo dialogo ecumenico. In realtà, riflettere sulla materia obbliga a fare i conti con i nodi centrali della ragion d’essere del cattolicesimo e del protestantesimo e della ragion d’essere della loro diversità. La venerazione dei santi è così tipicamente cattolica e, nel contempo, così tipicamente non evangelica, da costituire uno specchio in cui si riflettono integralmente entrambi gli orientamenti, in tutta la forza della loro particolarità. Tutto ciò è confermato dal testo di Carlo Colonna. La sua appassionata presentazione, infatti, introduce nell’universo cattolico di fare teologia e di vivere la fede, è una porta che, partendo dal tema della venerazione, immette in un modo di “sentire” la fede che ha cittadinanza nel cattolicesimo romano. Ad esempio, sul piano dell’articolazione teologica della fede, la sua attenzione ai diversi “livelli” del discorso sui santi (8-9), i modi diversificati della loro “presenza” nell’orizzonte della vita di fede (9-10), le distinzioni tra “ordini” primari e secondari della verità (13-15), la differenza suggerita tra mediazione “esteriore e secondaria” e quella “interiore ed essenziale” (27) o tra mediazione “semplice” e “complessa” (28), il costante riferimento alla dinamica dello sviluppo dottrinale governato dal magistero, indicano la complessità, non priva di fascino intellettuale, del modo cattolico di fare teologia. Il cattolicesimo raccoglie un’enorme quantità di elementi ed è in grado di assemblarli in una visione del mondo che li contenga tutti in un’unità composita la cui struttura interna raggiunge livelli di elevata (talvolta complicata) finezza intellettuale. Riflettere sulla venerazione dei santi non porta quindi a confrontarsi con un’appendice posticcia di cattolicesimo ma con un vissuto visceralmente cattolico. Inoltre, sul piano della spiritualità della fede, il lavoro di Colonna testimonia l’imprescindibile collegamento che esiste tra una teologia della venerazione dei santi e la prassi ecclesiale e popolare con i suoi addentellati liturgici, votivi e demologici. Così facendo, esso ben rappresenta la desiderata compattezza cui aspira la visione cattolica che si prefigge di tenere insieme teologia e prassi, fede ed esperienza, ragione e mistica, istituzione ecclesiastica e sentimento popolare. Per questi motivi, così sommariamente evocati, il confronto sulla questione non è meno “teologico” rispetto ad altri temi in quanto nella venerazione dei santi sta tutto il cattolicesimo e, nel rifiuto della venerazione dei santi, sta tutto il protestantesimo in tutto il suo rigore spirituale e la sua “semplicità” procedurale. Le strutture di plausibilità delle rispettive visioni del mondo sono chiaramente operative e riflesse nel modo in cui esse si collocano nei confronti della venerazione dei santi. L’altro pericolo da cui guardarsi per evitare di impostare malamente il dialogo riguarda l’individuazione del livello del confronto su cui interagire con la conseguente necessità di attenersi ad esso. La venerazione dei santi, infatti, può esporre ad una confusione di piani in quanto, nelle variegate esperienze in cui si dà il cattolicesimo, è facilmente rinvenibile una divaricazione, una sfasatura tra la teologia magisteriale della venerazione e la fenomenologia della pratica popolare della stessa. Non senza onestà, Colonna è consapevole degli eccessi, degli sconfinamenti, delle deformazioni che si registrano molto spesso nella devozione popolare tanto da produrre “forme superstiziose e pagane” (4). Gli evangelici avrebbero di che ridire sull’ambiguità da parte dei responsabili della pastorale cattolica che se, da un lato, timidamente rimproverano certe manifestazioni della devozione, dall’altro non fanno nulla, o per lo meno molto poco rispetto a quello che sarebbe necessario fare, per incanalarle su altri binari più confacenti ad una sobria manifestazione del culto. E’ vero che gli interessi in gioco sono tanti e forti (la partecipazione delle masse, la tradizione secolare, il richiamo commerciale e turistico che accompagna certe cerimonie,…) ma, pur senza voler minimamente rispolverare la retorica controversistica, una sorta di complicità non può essere sottaciuta. Non è comunque sulla fenomenologia deviante della venerazione dei santi che si deve concentrare il dialogo pena la confusione dei piani e l’intromissione di elementi di sicuro impatto polemico ma di scarso valore ai fini del confronto. La critica evangelica deve assumersi l’onere di interloquire con la teologia cattolica nella consapevolezza degli slittamenti che si verificano nella pietà popolare ma anche nella convinzione che la questione dirimente non è la fenomenologia bensì la teologia della venerazione dei santi codificata nel magistero e articolata nella riflessione spirituale. Certo, occorrerebbe interrogarsi sul senso da attribuire alla sostanziale “tolleranza” pastorale rispetto alle forme spurie del vissuto della devozione e se la prima non sia già programmata per accogliere le seconde senza volerle mettere seriamente in discussione. Il discorso porterebbe lontano ma è metodologicamente opportuno attenersi alla giustificazione teologica della venerazione dei santi per non introdurre turbative fuorvianti. “Siate sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15): qualunque sia il retroterra storico della diatriba e lo scontro di vissuti spirituali, il dialogo tra cattolici ed evangelici è legittimato anche su una materia tanto dibattuta e sentita come questa. Un dialogo che, contrariamente a quanto avviene di solito in molti ambienti ecumenici, non deve commettere l’errore di porre come premessa l’eventuale risultato a cui tende, dando per scontato ciò che invece dev’essere dimostrato. Un dialogo proficuo, invece, rispetta la diversità tra le parti così come si è stratificata nel tempo per porla in discussione e con l’intento anche di ascoltare attentamente le ragioni dell’altro all’insegna della “mansuetudine” e del “rispetto” (3,16). Non aiuta illudersi circa il fatto che la diatriba sia ormai superata né relativizzarne l’importanza. Con questa disposizione aperta all’interazione e nel contempo consapevole della posta in gioco, con una “coscienza pulita” direbbe l’apostolo Pietro nel testo sopra evocato, forse, il confronto può essere uno strumento nelle mani di Dio per raggiungere traguardi infinitamente più grandi “di quel che domandiamo o pensiamo” (Ef 3,20). Altre strade che sembrano abbreviare il percorso possono rivelarsi delle scorciatoie che conducono in un vicolo cieco. Occorre pertanto assumersi l’onere del confronto serio, franco e amichevole nella consapevolezza della complessità dei problemi e della serietà della materia.

2. Per una prospettiva biblica

Al di là di altre possibili caratterizzazioni di tipo storico e dottrinale, gli evangelici sono quello che sono per il loro attaccamento alla Bibbia e per il desiderio di conformare il pensiero e la vita all’insegnamento della Parola di Dio. Non è detto che sempre ci siano riusciti o che ci riescano ma la fede evangelica è costitutivamente innervata da una tensione verso la sottomissione e l’ubbidienza al Dio trinitario che si è rivelato nella Parola scritta, a cui è riconosciuto un ruolo “normante non normato” . Questa, si capisce, non è una caratteristica che, nel panorama della cristianità, s’attaglia in modo esclusivo agli evangelici, anche se rappresenta comunque uno di quei segni particolari della loro identità. Nella storia degli evangelici, il forte convincimento relativo allo statuto e al ruolo della Bibbia è stato condensato nella formula “sola Scriptura” che esprime l’unicità della Bibbia quanto alla sua natura e la sua suprema autorità in ogni materia di fede e condotta. Certamente, il contesto storico in cui la formula è stata coniata è quello della controversia con il cattolicesimo romano del XVI secolo da cui la Riforma protestante volle distanziarsi proprio nella diversa impostazione e soluzione date alla questione dell’autorità. Al di là dell’origine polemicamente denotata, se ben compresa, la formula, pur con tutti i limiti di ogni formula, è comunque significativa in quanto è in grado di delineare in modo pertinente la posizione evangelica. Per gli evangelici, il “luogo” imprescindibile dell’autorità divina e lo “strumento” inderogabile con cui Dio esercita la sua signoria sono la Parola scritta che si staglia sopra ogni altro luogo e strumento d’autorità. Questo breve preambolo serve ad evidenziare la natura dell’approccio evangelico alla questione qui dibattuta. Anche il tema della venerazione dei santi rientra nella giurisdizione del “sola Scriptura” ed è solo partendo e facendosi orientare dalla Bibbia che gli evangelici possono entrare in dialogo sulla questione. Altre considerazioni, per quanto importanti e suggestive, non hanno la portata dirimente che possiede il richiamo all’insegnamento della Bibbia, accompagnato dal desiderio di rimettere in discussione anche i convincimenti più radicati per modificarli, se necessario, secondo la luce che lo Spirito riflette nella Parola.

a. La qualifica di santi. La Bibbia pullula di “santi” nel senso che gli uomini e le donne a cui Dio ha fatto grazia e che hanno creduto al messaggio dell’evangelo sono qualificati, senza pudori o riserve mentali, come “santi” (At 9,13; Rm 8,27 e 26,2; 1 Cor 1,2; Cl 3,12). Tale connotazione non è il risultato di un cammino umanamente virtuoso che viene certificato da un riconoscimento a posteriori bensì lo status della persona che, per grazia di Dio mediante la fede, ha visto modificarsi radicalmente la relazione intrattenuta con il Dio di santità: da un rapporto marchiato da un patto infranto dal peccato ad uno contrassegnato dal ristabilimento di un’alleanza d’amore. Il Dio santo dichiara “santi” coloro a cui ha donato una nuova vita, esortandoli a vivere santamente sulla base di quell’attribuzione di santità. Quando un evangelico legge nella Bibbia il riferimento ai “santi” sa di trovarsi di fronte a dei semplici credenti in Cristo e rinati nello Spirito, senza che il loro essere santi debba essere ricondotto ad un motivo altro rispetto alla grazia di Dio o ad un’agenzia diversa da quella divina e senza che la loro posizione debba considerarsi diversa da quella di altri credenti di altri luoghi o di altri tempi. Questa è la dimensione posizionale della santità donata al credente che permette di chiamare “santo” ogni vero cristiano. In più, quando un evangelico legge nella Bibbia il comandamento a “santificarsi” (1 Ts 4,3-8; 1 Pt 1,15-16), a procedere nel cammino della “santificazione” (Ef 4,24), lo intende come rivolto pressantemente a tutti i credenti che, essendo già stati dichiarati santi da Dio, sono incoraggiati a progredire sempre più, a crescere, a perseverare in un cammino di santità a cui Dio li chiama. Questa è la dimensione progressiva della santificazione grazie alla quale lo Spirito Santo agisce nel credente facendolo maturare nelle vie di Dio e facendo diventare i santi sempre più ciò che già sono. Non tutti i santi si trovano nella medesima posizione rispetto al cammino di santità ma ciò non vuol dire che l’appellativo di santo non possa essere esteso a tutti loro. Già ad una prima ed introduttiva riflessione sul senso dell’esser “santi” si può comprendere quanto distante sia la comprensione evangelica dell’insegnamento biblico rispetto alla concezione cattolica della santità su cui s’innesta la giustificazione teologica della venerazione.

b. L’invocazione dei santi. Un secondo passaggio che un approccio evangelico non potrebbe saltare riguarda la questione dell’invocazione, ed in particolare la possibilità per un credente in vita di rivolgersi ad un credente già morto e alla presenza di Dio per presentargli una petizione o per offrirgli un atto di devozione. Oltre a ricordare la condanna ferma e decisa di ogni sorta d’evocazione degli spiriti che è anzi considerata un abominio agli occhi dell’Eterno (Lev 19,31; 20,6; Dt 18,11), l’unico caso che la Bibbia riporta e che potrebbe rientrare in questa tipologia è un episodio alquanto controverso anche se connotato del tutto negativamente dal testo sacro. Si tratta dell’evocazione dello spirito di Samuele da parte di un Saul in evidente stato di sbandamento (1 Sam 28). Senza voler entrare nella vicenda specifica sul piano esegetico e teologico, è del tutto evidente che Saul agisce in contrasto con la volontà di Dio e che, semmai, questo atto è un ulteriore segno di degenerazione della sua vita spirituale. Altri riferimenti biblici a santi che invocano altri santi già dall’altra parte dell’eternità non ci sono e questo dato non ha un valore meramente statistico bensì eminentemente teologico e spirituale. La Bibbia, infatti, tutta la Bibbia, è assolutamente cristallina nell’incoraggiare l’invocazione del Padre mediante il Figlio e nello Spirito Santo, senza che siano ammesse deroghe od eccezioni. Chi altri si dovrebbe e potrebbe invocare se non Dio il cui orecchio è sempre inclinato alla voce dei suoi figli (Sal 34,15; Is 59,1; 1 Pt 3,12)? Chi altri, se non Dio che ha dato il suo unigenito Figlio quale fedele e grande “sommo sacerdote” (Eb 2,17; 3,1; 4,14; 10,21) grazie al quale è data la “libertà” (Eb 10,19) ai santi di accostarsi al trono della grazia con “piena fiducia” (Eb 4,16; 10,22) e che “vive sempre per intercedere per loro” (Eb 7,25; Rom 8,34)? Chi altri, se non Dio il cui Spirito “intercede per i santi secondo il volere di Dio?” (Rm 8,26-27). Il santo inteso biblicamente è il soggetto che prega non quello a cui la preghiera è rivolta, è l’invocante non l’invocato, è il punto di partenza della preghiera non quello d’arrivo. Dei santi che ci hanno proceduto nella gloria del Padre si deve serbare il ricordo e, nel caso che abbiano lasciato una testimonianza fragrante e vibrante, imitarne la fede (Eb 13,7). Non vi è, tuttavia, un’esortazione esplicita od anche implicita a rivolgersi a coloro che sono morti nella fede per tributare loro una qualche forma di culto o per chiedere loro un qualche tipo d’intermediazione. Al contrario, vi sono innumerevoli appelli a mettere da parte tutti gl’illusori surrogati di Dio per rivolgersi all’Iddio vivente e vero ed affidarsi solo a Lui. E’ tutta la teologia biblica dell’invocazione a determinare l’orientamento teocentrico della preghiera che vede la creatura nella posizione di invocante e il Dio trinitario nella figura dell’invocato.

c. L’intercessione dei santi. Il terzo momento di una preliminare investigazione biblica sulla venerazione da un punto di vista evangelico non può che essere l’approfondimento del tema dell’intercessione dei santi. Se l’invocazione riguardava la possibilità di stabilire una comunicazione con i santi che vivono già nella gloria, l’intercessione ha a che fare con la possibilità che questi ultimi svolgano un ruolo d’intermediazione presso il trono della grazia in rappresentanza dei santi ancora viventi sulla terra che li hanno invocati in proposito. Si tratta di capire se le petizioni dei santi sulla terra possano essere fatte proprie dai santi nella gloria e, per così dire, “girate” a Dio grazie al loro interessamento. Quello dell’intercessione, in particolare, è un argomento che Colonna (19-20) cerca in modo apprezzabile di collegare direttamente alla Bibbia mediante il riferimento suggestivo ad Apocalisse 6,9-11. Il testo in questione, in effetti, parla dell’invocazione del giudizio di Dio da parte dei santi che erano stati uccisi a causa della parola di Dio e che ora sono sotto l’altare. Anche Ap 8,3-5 fa riferimento alle “preghiere dei santi” rivolte sempre in prossimità dell’altare di Dio. Il fatto è che queste petizioni, queste preghiere sono le loro preghiere, non le nostre di cui loro si sarebbero fatti interpreti e promotori. I santi celesti pregano ma non le preghiere dei santi terrestri. Ogni santo prega ed è chiamato a farlo ma mai nella Bibbia viene detto che i santi già nella gloria raccolgano le suppliche di altri e le presentino a Dio in forma di petizione in nome e per conto di altri. I testi di Apocalisse parlano dell’intercessione dei santi rispetto alle loro richieste e alle loro preghiere senza che questo comporti una loro funzione di collettori di petizioni altrui e di rappresentanti di voci altrui. Con Calvino bisogna riconoscere che, rispetto all’intercessione vicaria dei santi, “la Scrittura non ne contiene il minimo accenno. Perché inventarla?” . E’ vero, come scrive Colonna (19), che la loro intercessione ha conseguenze sulla storia così come le nostre preghiere possono averne se sono fatte secondo la volontà di Dio: questo è il mistero dell’intercessione, di qualsiasi intercessione presso il trono della grazia divina e non ha niente a che fare con un presunto valore aggiunto di una preghiera celeste rispetto ad una terrestre. Secondo una lettura evangelica della Bibbia, non solo i santi celesti non possono essere invocati ma nemmeno possono intercedere sulla base delle richieste provenienti dalla chiesa militante sulla terra. D’altronde, Dio Padre può e deve essere invocato nel nome del Figlio e ascolta le preghiere a Lui direttamente rivolte nel medesimo nome.

d. La mediazione di grazia dei santi. Giungiamo alla quarta importante sottolineatura che gli evangelici vorrebbero suggerire sulla base di una lettura che cerca di essere devota e rispettosa della Scrittura. Nella concezione cattolica, infatti, l’invocazione e l’intercessione dei santi sono strettamente collegate alla mediazione di grazie di cui i santi celesti sarebbero dispensatori. Questi sono aspetti tanto connessi da non poter essere separati l’uno dall’altro: se l’intercessione dei santi rappresenta il risultato di un percorso ascendente che parte dalle persone in vita per arrivare a Dio tramite l’ufficio dei santi, quello della mediazione riguarda invece un percorso discendente che parte da Dio e arriva agli esseri umani tramite la mediazione dei santi. Nel primo caso, è la preghiera ad essere l’oggetto in questione; nel secondo caso, è la grazia che è al centro della transazione. Sicuramente, si deve prestare attenzione al modo in cui questa mediazione è compresa nel cattolicesimo ed è quindi utile ed istruttivo leggere quanto scrive Colonna a proposito delle distinzioni tra vari tipi di mediazione. Anche riconoscendo l’intenzione cattolica di non voler sottrarre nulla alla mediazione di Cristo nel mettere in evidenza quella dei santi, ma anzi di voler concepire la seconda come modo in cui la prima si rende presente, rimane la profonda perplessità evangelica circa la possibilità di sostenere biblicamente questa visione che postula un qualche tipo di agenzia umana nelle operazioni della grazia. Risulta difficile, per non dire impossibile, trovare un qualche sostegno scritturistico al fatto che i santi celesti non solo si facciano carico delle intercessioni altrui ma anche che svolgano una funzione intermediaria tra i credenti e la grazia divina al punto da poterla dispensare in nome di Dio. Francamente, i testi dell’Apocalisse citati da Colonna non rappresentano una giustificazione plausibile di tutto l’intreccio intessuto sulla compenetrazione tra invocazione, intercessione e mediazione. Anche in questo caso, la Bibbia sembra essere enfaticamente ed inequivocabilmente schierata per l’esclusività della mediazione di Gesù Cristo che, per la sua perfezione e definitività, non ha bisogno di agenti umani, ancorché già glorificati, per diventare fruibile per l’umanità. In modo molto stringato, si è cercato di testimoniare il modo in cui un evangelico affronta la discussione sulla venerazione dei santi, partendo dalla sua comprensione dell’insegnamento biblico nella prospettiva del “sola Scriptura”. Ancorché impastato di forte cariche emotive ereditate dal passato, quello evangelico non è un odium theologicum preconcetto e gratuito nutrito nei confronti delle forti convinzioni cattoliche in materia. Gli evangelici non hanno nulla contro i santi, comunque li si voglia definire, men che meno contro i santi considerati tali nell’accezione cattolica, molti dei quali sono per loro esempi e modelli di fede e di carità. Ciò che risulta assolutamente evanescente per l’evangelico è il fondamento biblico del culto cattolico dei santi la cui giustificazione biblica appare del tutto imponderabile, anche se si tratta di un vissuto fondamentale per il cattolicesimo. Ciò che la Bibbia invita a fare è di fissare lo sguardo su Gesù nella consapevolezza di essere circondati da una grande schiera di testimoni che ci hanno preceduti (Eb 12,1), senza che a questi ultimi venga attribuito un ruolo o una funzione esorbitanti rispetto ai contorni biblici della loro posizione. E’ chiaro che l’impianto teologico della venerazione dei santi è la dottrina cattolica della chiesa come “corpo mistico” più che una teologia biblica della santità, della comunione e della preghiera. Tale dottrina, infatti, prevede la concezione secondo la quale la chiesa sarebbe il prolungamento dell’Incarnazione del Figlio, “rompendo” quindi l’unicità della persona di Gesù Cristo e la definitività della sua opera a favore della crescita dell’identità e del ruolo della chiesa. Inoltre, la dottrina cattolica del “corpo mistico” instaura all’interno di coloro che ne sono parte un rapporto di “circolarità” che permette, da un lato, la comunicazione con il mondo dei santi glorificati e, dall’altro, il loro intervento a favore di quelli viventi. In questa cornice di fondo, che meriterebbe di essere approfondita e ulteriormente sviluppata, trova la sua plausibilità la teologia della venerazione dei santi e la spiritualità ad essa connessa. Per coloro che, come gli evangelici, hanno una visione della chiesa come “corpo mistico” radicalmente diversa, tutto l’universo della venerazione appare come un mondo estraneo, difficile da capire se confrontato con le linee sobrie dell’insegnamento biblico sopra evocate. Per un evangelico risulta impossibile partire dalla Bibbia e arrivare alla venerazione dei santi in modo diretto senza che nel mezzo non vi sia il filtro di qualcos’altro, nella fattispecie la dottrina cattolica del “corpo mistico”. Se si esclude la mediazione teologica del “corpo mistico” cattolicamente inteso, le prospettive bibliche sulla venerazione dei santi tracciano un percorso profondamente diverso, a cui gli evangelici desiderano attenersi in modo rigoroso.

3. Al cuore del “soli Deo gloria” evangelico

In modo alquanto sorprendente, ma tale da suscitare un inaspettato interesse, Colonna sostiene che “il fondamento biblico del culto dei Santi coincide coi due dogmi protestanti: Soli Deo gloria e solus Christus” (8). La sua argomentazione tende ad indicare una convergenza sostanziale che esisterebbe tra la secolare tradizione cattolica e alcuni aspetti caratterizzanti della Riforma protestante condensati nelle espressioni sopra ricordate. Storicamente, “soli Deo gloria” e “solus Christus” furono intesi come manifestazioni programmatiche di una teologia che metteva in discussione il sistema teologico sul quale si fondava il culto dei santi ne promuoveva uno programmaticamente diverso in quanto imperniato sulla confessione dell’assoluta gratuità della grazia ricevuta mediante la fede soltanto . Il fatto che possano essere riletti alla luce di una loro compatibilità con ciò da cui volevano prendere le distanze merita attenzione. A questo proposito, vale forse la pena soffermarsi sul senso evangelico dei “sola, solus” per riflettere sull’eventuale plausibilità di quest’operazione teologica ecumenicamente orientata.

a. La radicale distinzione tra Creatore e creatura. “Soli Deo gloria” significa innanzitutto che Dio è Dio e che nessun altro è come lui! La sua natura gloriosa è sua in modo assoluto ed esclusivo così come il suo essere Dio gli attribuisce delle prerogative che sono sue in modo altrettanto assoluto ed esclusivo. Tra queste prerogative, c’è quella di essere glorificato dalle sue creature e di essere l’unico essere a cui tributare il culto. In questo senso, vi è una radicale distinzione tra il Creatore e la creatura: ciò che è di Dio è di Dio, ciò che è dell’uomo (o del creato) è dell’uomo. Relativizzare questa fondamentale differenza d’identità e di attribuzione significa stravolgere il senso della fede biblica (Sal 81,9-10; Rom 1,21-23) e sostituirlo con un progetto volto all’indebita divinizzazione della creatura. Per la Bibbia, a Dio, solo a Dio, spetta la gloria mentre alla creatura, a tutte le creature, spetta il glorificare Dio. Vista dalla prospettiva dell’uomo, nelle parole solenni del Catechismo abbreviato di Westminster (1648), “lo scopo principale della vita umana è dare gloria a Dio e godere per sempre della sua presenza”. Questo è l’obbiettivo cristiano dell’esistenza ed il programma religioso della vita: dare gloria a Dio stando attenti a non scadere in forme di culto idolatrico rivolto a dei surrogati di Dio. La percezione della Riforma protestante e degli evangelici dei secoli successivi è che, nel culto dei santi in particolare, il cattolicesimo esprima una diversa e contrastante concezione di questa distinzione tra il Creatore e la creatura, comunque tale da infrangere l’assolutezza e l’esclusività delle prerogative di Dio a favore di qualche creatura a cui viene elevato un qualche tipo di culto. Gli evangelici prendono atto del fatto che, nel venerare i santi, l’insegnamento del magistero cattolico non vuole oscurare la gloria di Dio né sottrarre nulla di ciò che dev’essere tributato al Creatore. Tuttavia, per la fede evangelica rimane altamente problematico il fatto che, mentre la Bibbia è inequivocabilmente e rigorosamente schierata per il culto di Dio (scelta che comporta l’abbattimento di ogni idolo, piccolo o grande che sia), il cattolicesimo mediante le sue sottigliezze teologiche e le sue giustapposizioni procedurali rivendica degli spazi di venerazione e di culto a beneficio di soggetti che dovrebbero solo essere ricordati per la gloria che hanno tributato al loro Signore e non per essere diventati il perno di autentici e pervasivi progetti di spiritualità. La linea di demarcazione tra il cattolicesimo e la fede evangelica passa attraverso il diverso spessore riconosciuto alla differenza tra ciò che è di Dio e ciò che è dell’uomo. “Soli Deo gloria” esprime bene la radicale distinzione qualitativa che orienta l’esistenza umana verso la glorificazione di Dio, solamente di Dio. Nella prospettiva evangelica, aggiungere qualcosa al culto di Dio significa, sempre e comunque, togliere qualcosa al culto di Dio.

b. La perfetta mediazione di Gesù Cristo. Se “soli Deo gloria” vuole rispettare la gelosia di Dio quanto alla sua persona, “solus Christus” vuole onorare la sufficienza di Dio quanto all’opera di suo Figlio. Una delle ragioni per cui Dio merita di essere glorificato è che la salvezza donata da Gesù Cristo è completa e definitiva. Se tra Dio e gli uomini vi è una differenza radicale, è anche vero che egli è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (1 Tm 2,5). La Bibbia va oltre e insegna che, per il fatto di essersi incarnato, Gesù può simpatizzare con gli esseri umani deboli e fragili (Eb 4,15) e può andare incontro a coloro che hanno bisogno di essere soccorsi (Eb 4,16). Per il fatto d’esser diventato simile agli uomini in ogni cosa tranne che per il peccato, Gesù può venire in aiuto a quelli che si trovano nella tentazione (Eb 2,18). Lui, che è entrato per noi oltre la cortina (Eb 6,19-20) avendo compiuto un’opera di salvezza unica e definitiva, ora compare alla presenza di Dio per noi (Eb 9,24) e dona la libertà di entrare alla presenza di Dio per mezzo del suo sangue (Eb 10,19). Per questi motivi, il credente evangelico non ha bisogno di ricorrere ad altre figure da invocare e a cui richiedere l’aiuto: la Bibbia lo esorta a rivolgersi solo a Gesù per chi lui è e per ciò che ha fatto: “solus Christus”. Alla luce della piena sufficienza dell’opera del Figlio di Dio incarnato, non c’è bisogno di altri soggetti che medino ulteriormente l’unica mediazione di Gesù Cristo o che s’interpongano a loro volta tra Dio Padre e colui che è venuto per permettere il ristabilimento dell’alleanza con Dio. Senza irriverenza: il Figlio basta e avanza! Egli è la via (Gv 14,6) e nessuno può andare al Padre se non per mezzo di lui (Gv 3,16). La “logica” dell’incarnazione preclude la possibilità che ci si affidi ad altri se non al Figlio incarnato; in caso contrario, verrebbe minata l’efficacia stessa dell’incarnazione in quanto si avrebbe bisogno di supplementi di mediazioni che integrino quella del Figlio di Dio o di ulteriori manovre di avvicinamento al Dio che non siano quelle offerte dal Figlio incarnato. Se Gesù Cristo viene avvertito come una figura distante, o comunque tale da abbisognare di altri mediatori per essere sentito vicino, il problema non sta certo nella lontananza del Figlio di Dio che si è incarnato apposta per essere l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, ma nella durezza di cuore o nella mancanza di fiducia di quelli per i quali tutto ciò non è sufficiente. Anche in questo caso, gli evangelici devono tenere presente e rispettare l’intenzione del magistero cattolico di non sottostimare l’unicità della persona e dell’opera di Gesù che accompagna l’esortazione alla venerazione dei santi e alla richiesta della loro intercessione. Tuttavia, per loro avviene un’infrazione significativa all’insegnamento della Scrittura laddove si ricerchino vie d’accesso al Padre o al Figlio stesso che prevedano invocazioni e richieste d’aiuto dirette ai santi glorificati. Nella prospettiva evangelica, rivolgersi ad altri rispetto a Gesù Cristo significa, sempre e comunque, rivolgersi al vuoto e non a Dio. I brevi cenni sul senso evangelico del “soli Deo gloria” e “solus Christus” impediscono di fatto una rivisitazione in chiave ecumenica della portata dirompente veicolata nelle due espressioni caratteristiche della Riforma protestante. Ora come allora, la prospettiva apodittica della Riforma per quanto riguarda le fondamenta della fede cristiana (o con Dio o contro Dio) non si presta a revisionismi che ne arrotondino le asperità teologiche e la rendano ecumenicamente accettabile. La visione assimilatrice del cattolicesimo, del tutto legittima anche se per lo meno opinabile, deve rispettare la fisionomia della fede evangelica senza tentare di strumentalizzarla o di manipolarla ai propri fini. Il confronto può e deve procedere sulla venerazione dei santi come su altri temi di comune interesse, a patto però di fare lo sforzo reciproco di ascoltare e di comprendere l’universo teologico dell’altro, nei termini in cui ciascuno lo presenta. Se ciò che l’altro esprime non corrisponde alle proprie categorie o ai desiderata ecumenici, si deve comunque avere l’onestà di interloquire con l’altro per quello che è e che crede. Nel documento dell’Alleanza Evangelica Italiana del 1999 intitolato «Orientamenti evangelici per pensare il cattolicesimo» c’è una constatazione che è utile ricordare anche a conclusione di questo contributo evangelico alla discussione tra cattolici ed evangelici sulla venerazione e l’invocazione dei santi. In esso, tra l’altro, si afferma che “le differenze tra il cattolicesimo e la fede evangelica sono numerose e si collocano su livelli molteplici, eppure esse sono tutte strettamente inter-relazionate e comunque riducibili alla differenza fondamentale dei rispettivi orientamenti. La differenza fondamentale tra la fede evangelica e il cattolicesimo non è di ordine meramente psicologico, storico, culturale, né è legata a diverse accentuazioni dottrinali o enfasi teologiche che potrebbero risultare complementari. Essa investe l’ordine dei presupposti, del progetto e del metodo delle rispettive confessioni” . Ciò appare sensato anche per quel che riguarda la venerazione dei santi. Con questa realistica consapevolezza, è auspicabile che il dialogo prosegua, anzi s’intensifichi ancor più, per raggiungere gli scopi che solo Dio conosce.

 

[1] A titolo di esempio, cf. Ernesto Comba, Cristianesimo e cattolicesimo romano, Torre Pellice, Claudiana, 1951, pp. 317-332; C.F. Dreyer-E. Werner, Il cattolicesimo romano alla luce delle Scritture, Roma, Uceb, 1962, pp. 161-166; Fausto Salvoni, Il culto dei santi, s.l., 1966; Jacques Blocher, La chiesa romana allo specchio, Napoli, Centro biblico, 1971, pp. 216-241; Roberto Nisbet, Ma il Vangelo non dice così, Torino, Claudiana, 199316, pp. 101-106; Giorgio Girardet, Protestanti e cattolici: le differenze, Torino, Claudiana, 1997, pp. 30-31.

[1] Cf. «Confessione di Augusta» (1530) XXI; «Seconda confessione elvetica» (1566) IV-V; «Confessione di Westminster» (1647) XXI; «Confessione di fede battista» (1689) XXII. I primi tre testi si trovano in Romeo Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle chiese cristiane, Bologna, EDB, 1996, mentre l’ultimo in Studi di teologia I (1989/2) N° 2. Per il mondo evangelico contemporaneo, cf. il documento a cura dell’Alleanza Evangelica Mondiale «Una valutazione evangelica del cattolicesimo romano» (1986) 3 in Pietro Bolognesi (a cura di), Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1996, Bologna, EDB, 1997, pp. 266-315.

[1] Nella tradizione evangelica, ci si riferisce alla Bibbia come alla “norma normans non normata” per esprimere il carattere ultimativo e non subordinato della Scrittura rispetto a tutte le altre autorità. Per un’autorevole presa di posizione evangelica sulla questione, cf. le «Dichiarazioni di Chicago» sull’inerranza biblica (1978) e sull’ermeneutica biblica (1982) in Dichiarazioni evangeliche, cit., rispettivamente pp. 132-145 e 177-182. Cf. inoltre, Carl Henry (a cura di), La rivelazione e la Bibbia nel pensiero evangelico contemporaneo, Napoli, Centro biblico, 1973;  René Pache, L’ispirazione e l’autorità della Bibbia, Roma, Uceb, 1978; James Packer, “L’ermeneutica e l’autorità della Bibbia”, Studi di teologia I (1978/1) N° 1, pp. 4-35; Benjamin B. Warfield, L’ispirazione e l’autorità della Bibbia, Caltanissetta, Alfa&Omega, 2001.

[1] Istituzioni della religione cristiana, III.XX.21.

[1] Per quanto riguarda il magistero recente, si veda ad esempio l’enciclica «Mystici corporis» (1943), la Costituzione dogmatica del Vaticano II «Lumen gentium» 8, 48-50 e il CCC 946-948. Per un’introduzione alla teologia cattolica del «corpo mistico», cf. Heribert Mühlen, Una mystica persona, Roma, Città Nuova Ed., 1968.

[1] Per un’esposizione moderna del senso dei «sola, solus» evangelici, cf. la «Dichiarazione di Cambridge» sulla necessità di un ritorno all’Evangelo (1996) in Dichiarazioni evangeliche, cit., pp. 494-501.

[1] «Orientamenti evangelici per pensare il cattolicesimo», 8 in Ideaitalia III:5 (settembre 1999),

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