Evangelici e cattolicesimo post-conciliare. Un’intervista a Leonardo De Chirico

(pubblicata su Riforma, 27/2/2004)

L’editore Peter Lang di Berna ha pubblicato di recente il volume di Leonardo De Chirico Evangelical Theological Perspectives on post-Vatican II Roman Catholicism (Prospettive della teologia evangelica sul cattolicesimo romano dopo il Concilio Valticano II).* Il saggio è frutto di ricerche compiute dall’autore in vista del dottorato di ricerca conseguito nel 2003 presso il King’s College di Londra.

A Leonardo De Chirico, professore dell’Istituto di formazione evangelica e documentazione di Padova e direttore della rivista Studi di teologia, abbiamo rivolto alcune domande riguardanti il suo libro.

Il cattolicesimo postconciliare è un oggetto di studio particolarmente complesso. Quali sono le principali fonti della sua ricerca e quale approccio ha applicato al loro esame?

Ho studiato gli scritti sul cattolicesimo di alcuni teologi evangelicali che hanno riflettuto sul Vaticano II, tra cui Gerrit Berkouwer, Cornelius Van Til e John Stott. Poi ho preso in esame alcuni dialoghi recenti tra cattolici ed evangelici nel mondo. In generale, assistiamo a una sorta di disorientamento evangelico di fronte a un cattolicesimo che sfugge agli stereotipi della controversia secolare. Sembra che le vecchie categorie non siano più adeguate a comprenderlo e che le pressioni verso la ricerca di convergenze a tutti i costi siano fortissime. Per affrontarlo teologicamente, non si deve rispolverare un atteggiamento polemico gratuito, ma occorre pensare il cattolicesimo in termini sistemici.

In che cosa consiste la particolarità dell’approccio sistemico?

Il cattolicesimo è una realtà complessa, per certi versi sfuggente. Eppure, c’è un collante teologico che lo tiene insieme e gli dà slancio. Se ci si limita a farne la fenomenologia, si rimane frastornati dalla sua varietà e l’analisi che ne segue è frammentaria. Bisogna capirne le strutture teologiche che permettono l’integrazione del tutto e che sostengono il progetto della cattolicità. Altrimenti, non si capirà come fanno a stare insieme il Cardinal Martini e Padre Pio e nemmeno si riuscirà a fare i conti con il protagonismo della chiesa di Roma sulla scena mondiale. In questo senso, mi sembra che si debba tornare a studiare il motivo natura-grazia che regge la visione cattolica del mondo e su cui s’innesta la comprensione che la chiesa di Roma ha di sé stessa e della sua missione.

Il suo interesse per il cattolicesimo è un fatto isolato in quell’ala del protestantesimo che spesso è definita come «evangelicale»?

L’Alleanza Evangelica Italiana è da tempo sensibile al tema e ha avuto un ruolo di primo piano nella redazione del Documento di Singapore (1986) che delinea delle prospettive evangeliche sul cattolicesimo. Più recentemente, un altro documento dell’AEI (1999) ha fatto il punto della situazione. Questo è il mio filone di riferimento. Del resto, il cattolicesimo è una questione aperta per tutti i protestanti e penso che il mio approccio possa essere utile per ripensare certi assunti ecumenicamente corretti, ma teologicamente discutibili.

 Lei cita spesso gli scritti di Vittorio Subilia. Come valuterebbe la riflessione di Subilia sul cattolicesimo?

Subilia ha indicato delle piste lungimiranti sul nesso cattolico tra cristologia ed ecclesiologia e sulle dinamiche assorbenti della cattolicità romana, anche se l’impianto teologico della sua ricerca non è pienamente soddisfacente. Tuttavia, è un vero peccato che la sua analisi sia andata gradualmente nel dimenticatoio per essere sostituita dalle tesi dell’ecumenismo corrente.

 Il suo saggio è stato pubblicato in inglese. Prevede anche la sua traduzione in italiano?

E’ dagli anni Sessanta che l’editoria evangelica italiana non pubblica uno studio organico sul cattolicesimo. Anche questo è un segno dei tempi. Non sono tanto interessato alla traduzione di quest’opera, quanto a promuovere un’analisi evangelica che faccia i conti con il sistema teologico del cattolicesimo, col progetto avvolgente della cattolicità e le sfide che comporta. Non credo a un protestantesimo che sia l’ala evangelica di una cristianità cattolicizzata.

 

 

 

La Chiesa vive dell’eucarestia?

Un commento evangelico alla nuova enciclica di Giovanni Paolo II

18/4/2003

Ecclesia de Eucharistia è il titolo dell’ultima enciclica di Giovanni Paolo II. In questo documento, il papa ricorda ai cattolici il senso teologico e il valore ecclesiale dell’eucarestia, evidentemente preoccupato per alcune tendenze riduzionistiche nella comprensione dei fedeli e per alcuni comportamenti ritenuti ambigui che si registrano nella prassi liturgica. Visto che un’enciclica non nasce mai nel vuoto, ma risponde sempre a bisogni concreti, è opportuno accennare alle due ragioni principali che hanno spinto il papa a emanarla. Innanzi tutto, l’introduzione delle riforme liturgiche seguite al Concilio Vaticano II (l’abolizione del latino, la posizione del celebrante verso l’assemblea, l’inculturazione delle forme liturgiche, ecc.) ha, nel giudizio di molti ambienti curiali, portato con sé molte sbavature cui il papa vuole rimediare, offrendo un’interpretazione magisteriale del rinnovamento liturgico introdotto dal Concilio e richiamando i cattolici al rispetto della secolare tradizione della chiesa nella celebrazione dell’eucarestia. In secondo luogo, il dialogo ecumenico degli ultimi decenni ha, per così dire, allentato in molti casi la rigidità del divieto cattolico a dare e ricevere l’ospitalità eucaristica nei confronti dei fratelli separati, soprattutto quelli che appartengono a realtà che la Chiesa di Roma non considera chiese, bensì comunità ecclesiali. Con l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, il papa ribadisce l’opposizione del magistero a forme di ‘ospitalità eucaristica’ che, per quanto di moda nel movimento ecumenico, sono in contrasto con la concezione cattolica dell’eucarestia. Insomma, il papa è preoccupato per la perdita di sacralità e per la minaccia all’esclusività dell’eucarestia cattolica.

Da un punto di vista teologico, l’enciclica conferma, stabilizza e rilancia un insegnamento già ampiamente consolidato nella Chiesa romana, a partire dal Concilio di Trento fino ad arrivare al Catechismo della chiesa cattolica. Non c’è alcuno sviluppo o prolungamento, ma solo ripetizione di una tradizione ormai secolare. Citando il Vaticano II, il papa ribadisce che l’eucarestia è “fonte e apice di tutta la vita cristiana” (1), è il “centro della vita ecclesiale” (3) di cui la chiesa vive. Viene ribadita la classica dottrina cattolica dell’eucarestia: il suo valore sacrificale, la ripresentazione del sacrificio di Cristo, la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati, l’efficacia salvifica della messa, la validità del sacramento solo se celebrata da chi ha ricevuto il sacramento dell’Ordine (cioè il sacerdote in comunione col vescovo e col papa), l’adorazione del corpo di Cristo nelle specie consacrate. Chiude il documento un richiamo consueto per questo papa a Maria, indicata un po’ pomposamente come donna “eucaristica”. Questa è la dottrina tradizionale. Niente di più, niente di meno.

Di fronte a questa enciclica, dai toni allarmati e restaurazionisti, ma perfettamente in linea con la teologia magisteriale e con l’impianto dogmatico del cattolicesimo, due riflessioni s’impongono. La prima considerazione è proprio teologica. Se la dottrina eucaristica della Chiesa di Roma è quella dell’enciclica (ma si potrebbe dire: quella di Trento, quella del Vaticano II, quella del Catechismo, ecc.: è la stessa cosa), il dissenso evangelico non può che essere netto e radicale. Non si tratta di un singolo punto o di una particolare enfasi della dottrina. È il sistema teologico che regge la comprensione cattolica dell’eucarestia ad essere totalmente inaccettabile. Per l’evangelo, la cena del Signore non è un sacrificio, ma un memoriale. Non perpetua la croce di Cristo, ma ne annuncia il messaggio di salvezza. Non deve essere adorata, ma accolta con fede e nella comunione della chiesa.  Il contrasto è frontale e sostanziale. In più, se all’eucarestia si legano organicamente anche il sacramento dell’Ordine e la visione gerarchica della chiesa, si capisce come essa sia incastonata in un sistema teologico che gli evangelici respingono in modo convinto. In una frase significativa, il papa scrive che “il Mistero eucaristico – sacrificio, presenza, banchetto – non consente riduzioni, né strumentalizzazioni” (61). In altre parole, la dottrina cattolica è una e indivisibile. Al suo centro c’è l’eucarestia che la riassume integralmente. Secondo la Ecclesia de Eucharistia, la Chiesa di Roma attribuisce all’eucarestia un posto di assoluta importanza nella ‘gerarchia di verità’ professate e, proprio per rispettare questo convincimento cattolico, gli evangelici non possono che prendere atto che la loro diversità riguarda proprio le fondamenta della fede, non qualche aspetto secondario. In tempi in cui l’ingenuità teologica di molti cattolici ed evangelici si manifesta in modo sempre più preoccupante, il papa ci aiuta a ricordare quali siano i pilastri del cattolicesimo e, così facendo, ci aiuta anche a mettere a fuoco quale sia la vera posta in gioco nelle relazioni con il cattolicesimo.

La seconda considerazione riguarda proprio i rapporti ecumenici. È prevedibile che il mondo ecumenico reagisca all’enciclica con gli stessi toni con cui reagì alla dichiarazione del card. Ratzinger, la Dominus Iesus del 2000. Sentiremo parlare di “doccia fredda”, di “passi indietro”, di “spiacevole sorpresa” per il cammino ecumenico. In realtà, impegnandosi nelle relazioni ecumeniche, la Chiesa cattolica fa il suo gioco senza sconti, senza diluizioni, senza cedimenti. In questo, il papa ha ragione da vendere quando dice che “il cammino verso la piena unità non può farsi se non nella verità” (44). Per la Chiesa di Roma, la sua interpretazione dell’eucarestia è il centro della vita cristiana e chi vuole entrare in comunione con lei deve adeguarsi alla sua verità, senza sperare che avvenga il processo contrario. Per Roma, è una questione di verità, la verità cattolica, s’intende – non di volontà, né tanto meno di politica ecclesiastica. Gran parte dell’ecumenismo odierno, invece, si regge sull’assunto che tutte le chiese cristiane devono ‘convertirsi’ e mettersi in discussione per arrivare all’unità. Non così la chiesa di Roma. A dispetto del linguaggio ecumenico che viene impiegato, il cattolicesimo ha una coerenza di fondo che gli impedisce di concepire l’ecumenismo come una profonda e strutturale conversione in senso evangelico. Al contrario, l’ecumenismo è visto come la riassimilazione del tutto dentro la sintesi cattolico-romana. Questo assorbimento può portare a dei cambiamenti anche significativi, ma non a una riforma teologica del sistema. Bisogna riconoscere al papa grande coerenza e sincerità. L’ecumenismo ha sempre bisogno di questa schiettezza che, per la verità, la Chiesa di Roma non ha mai abbandonato. Non si straccino le vesti gli ecumenici, ma imparino a comprendere la natura del cattolicesimo, al di là degli stereotipi dell’ecumenicamente corretto. Il papa ha fatto bene a richiamare ciò che molti cattolici e non dimenticano facilmente: nessuna ospitalità eucaristica a chi non è in comunione con lui, cioè a chi non riconosce la verità cattolica e la primazia papale. Se la chiesa di Roma vive dell’eucarestia, di questa eucarestia, l’unità con Roma rimane un’impossibilità permanente dettata da ragioni teologicamente fondate.

 

 

La venerazione e l’invocazione dei santi in prospettiva evangelica

In dialogo con Carlo Colonna

La venerazione dei santi è uno degli argomenti che sono stati al centro della secolare controversia tra cattolici e protestanti. Nell’immaginario evangelico, ispessito da secoli di diatribe e – nel caso dell’Italia – di persecuzione, il culto dei santi è la metafora riassuntiva e vivente del cattolicesimo, il suo paradigma teologico manifestato alla massima potenza nel campo della devozione, il ricettacolo del “paganesimo” romano filtrato nella pratica spirituale. Nel linguaggio popolare dell’apologetica che numerosi cattolici utilizzano ancora ed in cui molti evangelici s’identificano con una certa fierezza, una delle frasi che riassumono il senso dello smarcamento protestante rispetto al cattolicesimo è proprio che “gli evangelici non credono ai santi né alla madonna”. Il richiamo a questa sorta di agnosticismo evangelico esprime in modo discutibile ma chiarissimo la presa di posizione nei confronti di una pratica che, in ambito evangelico, viene avvertita come assolutamente estranea all’evangelo e che, in ambito cattolico, viene vice versa considerata come intrinsecamente legata alla religione cristiana. Una scorsa anche superficiale alla letteratura controversistica di parte evangelica deve rilevare il fatto che la venerazione dei santi sia un tema ricorrente nella percezione evangelica del cattolicesimo e nella sua critica allo stesso . Questa non dev’essere considerata un’ossessione polemica recente né tipicamente italiana in quanto è iscritta in numerose confessioni di fede della Riforma e del mondo evangelico contemporaneo nelle quali il rifiuto della venerazione dei santi è talmente importante da necessitare una specifica trattazione o comunque un’esplicita menzione . Oggi come ieri, quindi, la venerazione dei santi costituisce uno dei punti “caldi” della demarcazione tra fede cattolica ed evangelica sia sul piano teologico-dottrinale che su quello devozionale. Se si allarga il fuoco a questioni immediatamente connesse, come ad esempio il culto mariano e la venerazione delle reliquie, il senso di estraniamento evangelico si irrigidisce ancor più ma non fa che confermare l’idiosincrasia di fondo che viene avvertita da parte evangelica nei confronti dell’universo di fede in cui si colloca la venerazione dei santi.

1. Per un dialogo teologico

Accettare di dialogare sulla questione, quindi, obbliga a fare i conti con un passato tutt’altro che pacificato e con un presente tendenzialmente turbolento. Se questo è il retroterra storico e l’attuale scenario di riferimento, quale senso può avere un dialogo se non la riproposizione dell’antica e radicata controversia? Perché il dialogo non sia semplicemente un gratuito pour parler su tematiche d’interesse religioso, è necessario fare alcune considerazioni preliminari che collochino lo sforzo dialogico in una prospettiva di chiarezza e di reciproco ascolto delle rispettive ragioni. Nel dialogare si devono, per quanto possibile, accantonare due approcci che, per quanto apparentemente distanti l’uno dall’altro, sono entrambi nocivi alla fruttuosità del confronto. Il primo vicolo cieco da evitare è pensare che la venerazione dei santi sia un aspetto teologicamente marginale del confronto tra cattolici ed evangelici, un tema minore rispetto, per esempio, alla giustificazione per fede, tanto per citarne uno che è stato oggetto di un lungo dialogo ecumenico. In realtà, riflettere sulla materia obbliga a fare i conti con i nodi centrali della ragion d’essere del cattolicesimo e del protestantesimo e della ragion d’essere della loro diversità. La venerazione dei santi è così tipicamente cattolica e, nel contempo, così tipicamente non evangelica, da costituire uno specchio in cui si riflettono integralmente entrambi gli orientamenti, in tutta la forza della loro particolarità. Tutto ciò è confermato dal testo di Carlo Colonna. La sua appassionata presentazione, infatti, introduce nell’universo cattolico di fare teologia e di vivere la fede, è una porta che, partendo dal tema della venerazione, immette in un modo di “sentire” la fede che ha cittadinanza nel cattolicesimo romano. Ad esempio, sul piano dell’articolazione teologica della fede, la sua attenzione ai diversi “livelli” del discorso sui santi (8-9), i modi diversificati della loro “presenza” nell’orizzonte della vita di fede (9-10), le distinzioni tra “ordini” primari e secondari della verità (13-15), la differenza suggerita tra mediazione “esteriore e secondaria” e quella “interiore ed essenziale” (27) o tra mediazione “semplice” e “complessa” (28), il costante riferimento alla dinamica dello sviluppo dottrinale governato dal magistero, indicano la complessità, non priva di fascino intellettuale, del modo cattolico di fare teologia. Il cattolicesimo raccoglie un’enorme quantità di elementi ed è in grado di assemblarli in una visione del mondo che li contenga tutti in un’unità composita la cui struttura interna raggiunge livelli di elevata (talvolta complicata) finezza intellettuale. Riflettere sulla venerazione dei santi non porta quindi a confrontarsi con un’appendice posticcia di cattolicesimo ma con un vissuto visceralmente cattolico. Inoltre, sul piano della spiritualità della fede, il lavoro di Colonna testimonia l’imprescindibile collegamento che esiste tra una teologia della venerazione dei santi e la prassi ecclesiale e popolare con i suoi addentellati liturgici, votivi e demologici. Così facendo, esso ben rappresenta la desiderata compattezza cui aspira la visione cattolica che si prefigge di tenere insieme teologia e prassi, fede ed esperienza, ragione e mistica, istituzione ecclesiastica e sentimento popolare. Per questi motivi, così sommariamente evocati, il confronto sulla questione non è meno “teologico” rispetto ad altri temi in quanto nella venerazione dei santi sta tutto il cattolicesimo e, nel rifiuto della venerazione dei santi, sta tutto il protestantesimo in tutto il suo rigore spirituale e la sua “semplicità” procedurale. Le strutture di plausibilità delle rispettive visioni del mondo sono chiaramente operative e riflesse nel modo in cui esse si collocano nei confronti della venerazione dei santi. L’altro pericolo da cui guardarsi per evitare di impostare malamente il dialogo riguarda l’individuazione del livello del confronto su cui interagire con la conseguente necessità di attenersi ad esso. La venerazione dei santi, infatti, può esporre ad una confusione di piani in quanto, nelle variegate esperienze in cui si dà il cattolicesimo, è facilmente rinvenibile una divaricazione, una sfasatura tra la teologia magisteriale della venerazione e la fenomenologia della pratica popolare della stessa. Non senza onestà, Colonna è consapevole degli eccessi, degli sconfinamenti, delle deformazioni che si registrano molto spesso nella devozione popolare tanto da produrre “forme superstiziose e pagane” (4). Gli evangelici avrebbero di che ridire sull’ambiguità da parte dei responsabili della pastorale cattolica che se, da un lato, timidamente rimproverano certe manifestazioni della devozione, dall’altro non fanno nulla, o per lo meno molto poco rispetto a quello che sarebbe necessario fare, per incanalarle su altri binari più confacenti ad una sobria manifestazione del culto. E’ vero che gli interessi in gioco sono tanti e forti (la partecipazione delle masse, la tradizione secolare, il richiamo commerciale e turistico che accompagna certe cerimonie,…) ma, pur senza voler minimamente rispolverare la retorica controversistica, una sorta di complicità non può essere sottaciuta. Non è comunque sulla fenomenologia deviante della venerazione dei santi che si deve concentrare il dialogo pena la confusione dei piani e l’intromissione di elementi di sicuro impatto polemico ma di scarso valore ai fini del confronto. La critica evangelica deve assumersi l’onere di interloquire con la teologia cattolica nella consapevolezza degli slittamenti che si verificano nella pietà popolare ma anche nella convinzione che la questione dirimente non è la fenomenologia bensì la teologia della venerazione dei santi codificata nel magistero e articolata nella riflessione spirituale. Certo, occorrerebbe interrogarsi sul senso da attribuire alla sostanziale “tolleranza” pastorale rispetto alle forme spurie del vissuto della devozione e se la prima non sia già programmata per accogliere le seconde senza volerle mettere seriamente in discussione. Il discorso porterebbe lontano ma è metodologicamente opportuno attenersi alla giustificazione teologica della venerazione dei santi per non introdurre turbative fuorvianti. “Siate sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15): qualunque sia il retroterra storico della diatriba e lo scontro di vissuti spirituali, il dialogo tra cattolici ed evangelici è legittimato anche su una materia tanto dibattuta e sentita come questa. Un dialogo che, contrariamente a quanto avviene di solito in molti ambienti ecumenici, non deve commettere l’errore di porre come premessa l’eventuale risultato a cui tende, dando per scontato ciò che invece dev’essere dimostrato. Un dialogo proficuo, invece, rispetta la diversità tra le parti così come si è stratificata nel tempo per porla in discussione e con l’intento anche di ascoltare attentamente le ragioni dell’altro all’insegna della “mansuetudine” e del “rispetto” (3,16). Non aiuta illudersi circa il fatto che la diatriba sia ormai superata né relativizzarne l’importanza. Con questa disposizione aperta all’interazione e nel contempo consapevole della posta in gioco, con una “coscienza pulita” direbbe l’apostolo Pietro nel testo sopra evocato, forse, il confronto può essere uno strumento nelle mani di Dio per raggiungere traguardi infinitamente più grandi “di quel che domandiamo o pensiamo” (Ef 3,20). Altre strade che sembrano abbreviare il percorso possono rivelarsi delle scorciatoie che conducono in un vicolo cieco. Occorre pertanto assumersi l’onere del confronto serio, franco e amichevole nella consapevolezza della complessità dei problemi e della serietà della materia.

2. Per una prospettiva biblica

Al di là di altre possibili caratterizzazioni di tipo storico e dottrinale, gli evangelici sono quello che sono per il loro attaccamento alla Bibbia e per il desiderio di conformare il pensiero e la vita all’insegnamento della Parola di Dio. Non è detto che sempre ci siano riusciti o che ci riescano ma la fede evangelica è costitutivamente innervata da una tensione verso la sottomissione e l’ubbidienza al Dio trinitario che si è rivelato nella Parola scritta, a cui è riconosciuto un ruolo “normante non normato” . Questa, si capisce, non è una caratteristica che, nel panorama della cristianità, s’attaglia in modo esclusivo agli evangelici, anche se rappresenta comunque uno di quei segni particolari della loro identità. Nella storia degli evangelici, il forte convincimento relativo allo statuto e al ruolo della Bibbia è stato condensato nella formula “sola Scriptura” che esprime l’unicità della Bibbia quanto alla sua natura e la sua suprema autorità in ogni materia di fede e condotta. Certamente, il contesto storico in cui la formula è stata coniata è quello della controversia con il cattolicesimo romano del XVI secolo da cui la Riforma protestante volle distanziarsi proprio nella diversa impostazione e soluzione date alla questione dell’autorità. Al di là dell’origine polemicamente denotata, se ben compresa, la formula, pur con tutti i limiti di ogni formula, è comunque significativa in quanto è in grado di delineare in modo pertinente la posizione evangelica. Per gli evangelici, il “luogo” imprescindibile dell’autorità divina e lo “strumento” inderogabile con cui Dio esercita la sua signoria sono la Parola scritta che si staglia sopra ogni altro luogo e strumento d’autorità. Questo breve preambolo serve ad evidenziare la natura dell’approccio evangelico alla questione qui dibattuta. Anche il tema della venerazione dei santi rientra nella giurisdizione del “sola Scriptura” ed è solo partendo e facendosi orientare dalla Bibbia che gli evangelici possono entrare in dialogo sulla questione. Altre considerazioni, per quanto importanti e suggestive, non hanno la portata dirimente che possiede il richiamo all’insegnamento della Bibbia, accompagnato dal desiderio di rimettere in discussione anche i convincimenti più radicati per modificarli, se necessario, secondo la luce che lo Spirito riflette nella Parola.

a. La qualifica di santi. La Bibbia pullula di “santi” nel senso che gli uomini e le donne a cui Dio ha fatto grazia e che hanno creduto al messaggio dell’evangelo sono qualificati, senza pudori o riserve mentali, come “santi” (At 9,13; Rm 8,27 e 26,2; 1 Cor 1,2; Cl 3,12). Tale connotazione non è il risultato di un cammino umanamente virtuoso che viene certificato da un riconoscimento a posteriori bensì lo status della persona che, per grazia di Dio mediante la fede, ha visto modificarsi radicalmente la relazione intrattenuta con il Dio di santità: da un rapporto marchiato da un patto infranto dal peccato ad uno contrassegnato dal ristabilimento di un’alleanza d’amore. Il Dio santo dichiara “santi” coloro a cui ha donato una nuova vita, esortandoli a vivere santamente sulla base di quell’attribuzione di santità. Quando un evangelico legge nella Bibbia il riferimento ai “santi” sa di trovarsi di fronte a dei semplici credenti in Cristo e rinati nello Spirito, senza che il loro essere santi debba essere ricondotto ad un motivo altro rispetto alla grazia di Dio o ad un’agenzia diversa da quella divina e senza che la loro posizione debba considerarsi diversa da quella di altri credenti di altri luoghi o di altri tempi. Questa è la dimensione posizionale della santità donata al credente che permette di chiamare “santo” ogni vero cristiano. In più, quando un evangelico legge nella Bibbia il comandamento a “santificarsi” (1 Ts 4,3-8; 1 Pt 1,15-16), a procedere nel cammino della “santificazione” (Ef 4,24), lo intende come rivolto pressantemente a tutti i credenti che, essendo già stati dichiarati santi da Dio, sono incoraggiati a progredire sempre più, a crescere, a perseverare in un cammino di santità a cui Dio li chiama. Questa è la dimensione progressiva della santificazione grazie alla quale lo Spirito Santo agisce nel credente facendolo maturare nelle vie di Dio e facendo diventare i santi sempre più ciò che già sono. Non tutti i santi si trovano nella medesima posizione rispetto al cammino di santità ma ciò non vuol dire che l’appellativo di santo non possa essere esteso a tutti loro. Già ad una prima ed introduttiva riflessione sul senso dell’esser “santi” si può comprendere quanto distante sia la comprensione evangelica dell’insegnamento biblico rispetto alla concezione cattolica della santità su cui s’innesta la giustificazione teologica della venerazione.

b. L’invocazione dei santi. Un secondo passaggio che un approccio evangelico non potrebbe saltare riguarda la questione dell’invocazione, ed in particolare la possibilità per un credente in vita di rivolgersi ad un credente già morto e alla presenza di Dio per presentargli una petizione o per offrirgli un atto di devozione. Oltre a ricordare la condanna ferma e decisa di ogni sorta d’evocazione degli spiriti che è anzi considerata un abominio agli occhi dell’Eterno (Lev 19,31; 20,6; Dt 18,11), l’unico caso che la Bibbia riporta e che potrebbe rientrare in questa tipologia è un episodio alquanto controverso anche se connotato del tutto negativamente dal testo sacro. Si tratta dell’evocazione dello spirito di Samuele da parte di un Saul in evidente stato di sbandamento (1 Sam 28). Senza voler entrare nella vicenda specifica sul piano esegetico e teologico, è del tutto evidente che Saul agisce in contrasto con la volontà di Dio e che, semmai, questo atto è un ulteriore segno di degenerazione della sua vita spirituale. Altri riferimenti biblici a santi che invocano altri santi già dall’altra parte dell’eternità non ci sono e questo dato non ha un valore meramente statistico bensì eminentemente teologico e spirituale. La Bibbia, infatti, tutta la Bibbia, è assolutamente cristallina nell’incoraggiare l’invocazione del Padre mediante il Figlio e nello Spirito Santo, senza che siano ammesse deroghe od eccezioni. Chi altri si dovrebbe e potrebbe invocare se non Dio il cui orecchio è sempre inclinato alla voce dei suoi figli (Sal 34,15; Is 59,1; 1 Pt 3,12)? Chi altri, se non Dio che ha dato il suo unigenito Figlio quale fedele e grande “sommo sacerdote” (Eb 2,17; 3,1; 4,14; 10,21) grazie al quale è data la “libertà” (Eb 10,19) ai santi di accostarsi al trono della grazia con “piena fiducia” (Eb 4,16; 10,22) e che “vive sempre per intercedere per loro” (Eb 7,25; Rom 8,34)? Chi altri, se non Dio il cui Spirito “intercede per i santi secondo il volere di Dio?” (Rm 8,26-27). Il santo inteso biblicamente è il soggetto che prega non quello a cui la preghiera è rivolta, è l’invocante non l’invocato, è il punto di partenza della preghiera non quello d’arrivo. Dei santi che ci hanno proceduto nella gloria del Padre si deve serbare il ricordo e, nel caso che abbiano lasciato una testimonianza fragrante e vibrante, imitarne la fede (Eb 13,7). Non vi è, tuttavia, un’esortazione esplicita od anche implicita a rivolgersi a coloro che sono morti nella fede per tributare loro una qualche forma di culto o per chiedere loro un qualche tipo d’intermediazione. Al contrario, vi sono innumerevoli appelli a mettere da parte tutti gl’illusori surrogati di Dio per rivolgersi all’Iddio vivente e vero ed affidarsi solo a Lui. E’ tutta la teologia biblica dell’invocazione a determinare l’orientamento teocentrico della preghiera che vede la creatura nella posizione di invocante e il Dio trinitario nella figura dell’invocato.

c. L’intercessione dei santi. Il terzo momento di una preliminare investigazione biblica sulla venerazione da un punto di vista evangelico non può che essere l’approfondimento del tema dell’intercessione dei santi. Se l’invocazione riguardava la possibilità di stabilire una comunicazione con i santi che vivono già nella gloria, l’intercessione ha a che fare con la possibilità che questi ultimi svolgano un ruolo d’intermediazione presso il trono della grazia in rappresentanza dei santi ancora viventi sulla terra che li hanno invocati in proposito. Si tratta di capire se le petizioni dei santi sulla terra possano essere fatte proprie dai santi nella gloria e, per così dire, “girate” a Dio grazie al loro interessamento. Quello dell’intercessione, in particolare, è un argomento che Colonna (19-20) cerca in modo apprezzabile di collegare direttamente alla Bibbia mediante il riferimento suggestivo ad Apocalisse 6,9-11. Il testo in questione, in effetti, parla dell’invocazione del giudizio di Dio da parte dei santi che erano stati uccisi a causa della parola di Dio e che ora sono sotto l’altare. Anche Ap 8,3-5 fa riferimento alle “preghiere dei santi” rivolte sempre in prossimità dell’altare di Dio. Il fatto è che queste petizioni, queste preghiere sono le loro preghiere, non le nostre di cui loro si sarebbero fatti interpreti e promotori. I santi celesti pregano ma non le preghiere dei santi terrestri. Ogni santo prega ed è chiamato a farlo ma mai nella Bibbia viene detto che i santi già nella gloria raccolgano le suppliche di altri e le presentino a Dio in forma di petizione in nome e per conto di altri. I testi di Apocalisse parlano dell’intercessione dei santi rispetto alle loro richieste e alle loro preghiere senza che questo comporti una loro funzione di collettori di petizioni altrui e di rappresentanti di voci altrui. Con Calvino bisogna riconoscere che, rispetto all’intercessione vicaria dei santi, “la Scrittura non ne contiene il minimo accenno. Perché inventarla?” . E’ vero, come scrive Colonna (19), che la loro intercessione ha conseguenze sulla storia così come le nostre preghiere possono averne se sono fatte secondo la volontà di Dio: questo è il mistero dell’intercessione, di qualsiasi intercessione presso il trono della grazia divina e non ha niente a che fare con un presunto valore aggiunto di una preghiera celeste rispetto ad una terrestre. Secondo una lettura evangelica della Bibbia, non solo i santi celesti non possono essere invocati ma nemmeno possono intercedere sulla base delle richieste provenienti dalla chiesa militante sulla terra. D’altronde, Dio Padre può e deve essere invocato nel nome del Figlio e ascolta le preghiere a Lui direttamente rivolte nel medesimo nome.

d. La mediazione di grazia dei santi. Giungiamo alla quarta importante sottolineatura che gli evangelici vorrebbero suggerire sulla base di una lettura che cerca di essere devota e rispettosa della Scrittura. Nella concezione cattolica, infatti, l’invocazione e l’intercessione dei santi sono strettamente collegate alla mediazione di grazie di cui i santi celesti sarebbero dispensatori. Questi sono aspetti tanto connessi da non poter essere separati l’uno dall’altro: se l’intercessione dei santi rappresenta il risultato di un percorso ascendente che parte dalle persone in vita per arrivare a Dio tramite l’ufficio dei santi, quello della mediazione riguarda invece un percorso discendente che parte da Dio e arriva agli esseri umani tramite la mediazione dei santi. Nel primo caso, è la preghiera ad essere l’oggetto in questione; nel secondo caso, è la grazia che è al centro della transazione. Sicuramente, si deve prestare attenzione al modo in cui questa mediazione è compresa nel cattolicesimo ed è quindi utile ed istruttivo leggere quanto scrive Colonna a proposito delle distinzioni tra vari tipi di mediazione. Anche riconoscendo l’intenzione cattolica di non voler sottrarre nulla alla mediazione di Cristo nel mettere in evidenza quella dei santi, ma anzi di voler concepire la seconda come modo in cui la prima si rende presente, rimane la profonda perplessità evangelica circa la possibilità di sostenere biblicamente questa visione che postula un qualche tipo di agenzia umana nelle operazioni della grazia. Risulta difficile, per non dire impossibile, trovare un qualche sostegno scritturistico al fatto che i santi celesti non solo si facciano carico delle intercessioni altrui ma anche che svolgano una funzione intermediaria tra i credenti e la grazia divina al punto da poterla dispensare in nome di Dio. Francamente, i testi dell’Apocalisse citati da Colonna non rappresentano una giustificazione plausibile di tutto l’intreccio intessuto sulla compenetrazione tra invocazione, intercessione e mediazione. Anche in questo caso, la Bibbia sembra essere enfaticamente ed inequivocabilmente schierata per l’esclusività della mediazione di Gesù Cristo che, per la sua perfezione e definitività, non ha bisogno di agenti umani, ancorché già glorificati, per diventare fruibile per l’umanità. In modo molto stringato, si è cercato di testimoniare il modo in cui un evangelico affronta la discussione sulla venerazione dei santi, partendo dalla sua comprensione dell’insegnamento biblico nella prospettiva del “sola Scriptura”. Ancorché impastato di forte cariche emotive ereditate dal passato, quello evangelico non è un odium theologicum preconcetto e gratuito nutrito nei confronti delle forti convinzioni cattoliche in materia. Gli evangelici non hanno nulla contro i santi, comunque li si voglia definire, men che meno contro i santi considerati tali nell’accezione cattolica, molti dei quali sono per loro esempi e modelli di fede e di carità. Ciò che risulta assolutamente evanescente per l’evangelico è il fondamento biblico del culto cattolico dei santi la cui giustificazione biblica appare del tutto imponderabile, anche se si tratta di un vissuto fondamentale per il cattolicesimo. Ciò che la Bibbia invita a fare è di fissare lo sguardo su Gesù nella consapevolezza di essere circondati da una grande schiera di testimoni che ci hanno preceduti (Eb 12,1), senza che a questi ultimi venga attribuito un ruolo o una funzione esorbitanti rispetto ai contorni biblici della loro posizione. E’ chiaro che l’impianto teologico della venerazione dei santi è la dottrina cattolica della chiesa come “corpo mistico” più che una teologia biblica della santità, della comunione e della preghiera. Tale dottrina, infatti, prevede la concezione secondo la quale la chiesa sarebbe il prolungamento dell’Incarnazione del Figlio, “rompendo” quindi l’unicità della persona di Gesù Cristo e la definitività della sua opera a favore della crescita dell’identità e del ruolo della chiesa. Inoltre, la dottrina cattolica del “corpo mistico” instaura all’interno di coloro che ne sono parte un rapporto di “circolarità” che permette, da un lato, la comunicazione con il mondo dei santi glorificati e, dall’altro, il loro intervento a favore di quelli viventi. In questa cornice di fondo, che meriterebbe di essere approfondita e ulteriormente sviluppata, trova la sua plausibilità la teologia della venerazione dei santi e la spiritualità ad essa connessa. Per coloro che, come gli evangelici, hanno una visione della chiesa come “corpo mistico” radicalmente diversa, tutto l’universo della venerazione appare come un mondo estraneo, difficile da capire se confrontato con le linee sobrie dell’insegnamento biblico sopra evocate. Per un evangelico risulta impossibile partire dalla Bibbia e arrivare alla venerazione dei santi in modo diretto senza che nel mezzo non vi sia il filtro di qualcos’altro, nella fattispecie la dottrina cattolica del “corpo mistico”. Se si esclude la mediazione teologica del “corpo mistico” cattolicamente inteso, le prospettive bibliche sulla venerazione dei santi tracciano un percorso profondamente diverso, a cui gli evangelici desiderano attenersi in modo rigoroso.

3. Al cuore del “soli Deo gloria” evangelico

In modo alquanto sorprendente, ma tale da suscitare un inaspettato interesse, Colonna sostiene che “il fondamento biblico del culto dei Santi coincide coi due dogmi protestanti: Soli Deo gloria e solus Christus” (8). La sua argomentazione tende ad indicare una convergenza sostanziale che esisterebbe tra la secolare tradizione cattolica e alcuni aspetti caratterizzanti della Riforma protestante condensati nelle espressioni sopra ricordate. Storicamente, “soli Deo gloria” e “solus Christus” furono intesi come manifestazioni programmatiche di una teologia che metteva in discussione il sistema teologico sul quale si fondava il culto dei santi ne promuoveva uno programmaticamente diverso in quanto imperniato sulla confessione dell’assoluta gratuità della grazia ricevuta mediante la fede soltanto . Il fatto che possano essere riletti alla luce di una loro compatibilità con ciò da cui volevano prendere le distanze merita attenzione. A questo proposito, vale forse la pena soffermarsi sul senso evangelico dei “sola, solus” per riflettere sull’eventuale plausibilità di quest’operazione teologica ecumenicamente orientata.

a. La radicale distinzione tra Creatore e creatura. “Soli Deo gloria” significa innanzitutto che Dio è Dio e che nessun altro è come lui! La sua natura gloriosa è sua in modo assoluto ed esclusivo così come il suo essere Dio gli attribuisce delle prerogative che sono sue in modo altrettanto assoluto ed esclusivo. Tra queste prerogative, c’è quella di essere glorificato dalle sue creature e di essere l’unico essere a cui tributare il culto. In questo senso, vi è una radicale distinzione tra il Creatore e la creatura: ciò che è di Dio è di Dio, ciò che è dell’uomo (o del creato) è dell’uomo. Relativizzare questa fondamentale differenza d’identità e di attribuzione significa stravolgere il senso della fede biblica (Sal 81,9-10; Rom 1,21-23) e sostituirlo con un progetto volto all’indebita divinizzazione della creatura. Per la Bibbia, a Dio, solo a Dio, spetta la gloria mentre alla creatura, a tutte le creature, spetta il glorificare Dio. Vista dalla prospettiva dell’uomo, nelle parole solenni del Catechismo abbreviato di Westminster (1648), “lo scopo principale della vita umana è dare gloria a Dio e godere per sempre della sua presenza”. Questo è l’obbiettivo cristiano dell’esistenza ed il programma religioso della vita: dare gloria a Dio stando attenti a non scadere in forme di culto idolatrico rivolto a dei surrogati di Dio. La percezione della Riforma protestante e degli evangelici dei secoli successivi è che, nel culto dei santi in particolare, il cattolicesimo esprima una diversa e contrastante concezione di questa distinzione tra il Creatore e la creatura, comunque tale da infrangere l’assolutezza e l’esclusività delle prerogative di Dio a favore di qualche creatura a cui viene elevato un qualche tipo di culto. Gli evangelici prendono atto del fatto che, nel venerare i santi, l’insegnamento del magistero cattolico non vuole oscurare la gloria di Dio né sottrarre nulla di ciò che dev’essere tributato al Creatore. Tuttavia, per la fede evangelica rimane altamente problematico il fatto che, mentre la Bibbia è inequivocabilmente e rigorosamente schierata per il culto di Dio (scelta che comporta l’abbattimento di ogni idolo, piccolo o grande che sia), il cattolicesimo mediante le sue sottigliezze teologiche e le sue giustapposizioni procedurali rivendica degli spazi di venerazione e di culto a beneficio di soggetti che dovrebbero solo essere ricordati per la gloria che hanno tributato al loro Signore e non per essere diventati il perno di autentici e pervasivi progetti di spiritualità. La linea di demarcazione tra il cattolicesimo e la fede evangelica passa attraverso il diverso spessore riconosciuto alla differenza tra ciò che è di Dio e ciò che è dell’uomo. “Soli Deo gloria” esprime bene la radicale distinzione qualitativa che orienta l’esistenza umana verso la glorificazione di Dio, solamente di Dio. Nella prospettiva evangelica, aggiungere qualcosa al culto di Dio significa, sempre e comunque, togliere qualcosa al culto di Dio.

b. La perfetta mediazione di Gesù Cristo. Se “soli Deo gloria” vuole rispettare la gelosia di Dio quanto alla sua persona, “solus Christus” vuole onorare la sufficienza di Dio quanto all’opera di suo Figlio. Una delle ragioni per cui Dio merita di essere glorificato è che la salvezza donata da Gesù Cristo è completa e definitiva. Se tra Dio e gli uomini vi è una differenza radicale, è anche vero che egli è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (1 Tm 2,5). La Bibbia va oltre e insegna che, per il fatto di essersi incarnato, Gesù può simpatizzare con gli esseri umani deboli e fragili (Eb 4,15) e può andare incontro a coloro che hanno bisogno di essere soccorsi (Eb 4,16). Per il fatto d’esser diventato simile agli uomini in ogni cosa tranne che per il peccato, Gesù può venire in aiuto a quelli che si trovano nella tentazione (Eb 2,18). Lui, che è entrato per noi oltre la cortina (Eb 6,19-20) avendo compiuto un’opera di salvezza unica e definitiva, ora compare alla presenza di Dio per noi (Eb 9,24) e dona la libertà di entrare alla presenza di Dio per mezzo del suo sangue (Eb 10,19). Per questi motivi, il credente evangelico non ha bisogno di ricorrere ad altre figure da invocare e a cui richiedere l’aiuto: la Bibbia lo esorta a rivolgersi solo a Gesù per chi lui è e per ciò che ha fatto: “solus Christus”. Alla luce della piena sufficienza dell’opera del Figlio di Dio incarnato, non c’è bisogno di altri soggetti che medino ulteriormente l’unica mediazione di Gesù Cristo o che s’interpongano a loro volta tra Dio Padre e colui che è venuto per permettere il ristabilimento dell’alleanza con Dio. Senza irriverenza: il Figlio basta e avanza! Egli è la via (Gv 14,6) e nessuno può andare al Padre se non per mezzo di lui (Gv 3,16). La “logica” dell’incarnazione preclude la possibilità che ci si affidi ad altri se non al Figlio incarnato; in caso contrario, verrebbe minata l’efficacia stessa dell’incarnazione in quanto si avrebbe bisogno di supplementi di mediazioni che integrino quella del Figlio di Dio o di ulteriori manovre di avvicinamento al Dio che non siano quelle offerte dal Figlio incarnato. Se Gesù Cristo viene avvertito come una figura distante, o comunque tale da abbisognare di altri mediatori per essere sentito vicino, il problema non sta certo nella lontananza del Figlio di Dio che si è incarnato apposta per essere l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, ma nella durezza di cuore o nella mancanza di fiducia di quelli per i quali tutto ciò non è sufficiente. Anche in questo caso, gli evangelici devono tenere presente e rispettare l’intenzione del magistero cattolico di non sottostimare l’unicità della persona e dell’opera di Gesù che accompagna l’esortazione alla venerazione dei santi e alla richiesta della loro intercessione. Tuttavia, per loro avviene un’infrazione significativa all’insegnamento della Scrittura laddove si ricerchino vie d’accesso al Padre o al Figlio stesso che prevedano invocazioni e richieste d’aiuto dirette ai santi glorificati. Nella prospettiva evangelica, rivolgersi ad altri rispetto a Gesù Cristo significa, sempre e comunque, rivolgersi al vuoto e non a Dio. I brevi cenni sul senso evangelico del “soli Deo gloria” e “solus Christus” impediscono di fatto una rivisitazione in chiave ecumenica della portata dirompente veicolata nelle due espressioni caratteristiche della Riforma protestante. Ora come allora, la prospettiva apodittica della Riforma per quanto riguarda le fondamenta della fede cristiana (o con Dio o contro Dio) non si presta a revisionismi che ne arrotondino le asperità teologiche e la rendano ecumenicamente accettabile. La visione assimilatrice del cattolicesimo, del tutto legittima anche se per lo meno opinabile, deve rispettare la fisionomia della fede evangelica senza tentare di strumentalizzarla o di manipolarla ai propri fini. Il confronto può e deve procedere sulla venerazione dei santi come su altri temi di comune interesse, a patto però di fare lo sforzo reciproco di ascoltare e di comprendere l’universo teologico dell’altro, nei termini in cui ciascuno lo presenta. Se ciò che l’altro esprime non corrisponde alle proprie categorie o ai desiderata ecumenici, si deve comunque avere l’onestà di interloquire con l’altro per quello che è e che crede. Nel documento dell’Alleanza Evangelica Italiana del 1999 intitolato «Orientamenti evangelici per pensare il cattolicesimo» c’è una constatazione che è utile ricordare anche a conclusione di questo contributo evangelico alla discussione tra cattolici ed evangelici sulla venerazione e l’invocazione dei santi. In esso, tra l’altro, si afferma che “le differenze tra il cattolicesimo e la fede evangelica sono numerose e si collocano su livelli molteplici, eppure esse sono tutte strettamente inter-relazionate e comunque riducibili alla differenza fondamentale dei rispettivi orientamenti. La differenza fondamentale tra la fede evangelica e il cattolicesimo non è di ordine meramente psicologico, storico, culturale, né è legata a diverse accentuazioni dottrinali o enfasi teologiche che potrebbero risultare complementari. Essa investe l’ordine dei presupposti, del progetto e del metodo delle rispettive confessioni” . Ciò appare sensato anche per quel che riguarda la venerazione dei santi. Con questa realistica consapevolezza, è auspicabile che il dialogo prosegua, anzi s’intensifichi ancor più, per raggiungere gli scopi che solo Dio conosce.

 

[1] A titolo di esempio, cf. Ernesto Comba, Cristianesimo e cattolicesimo romano, Torre Pellice, Claudiana, 1951, pp. 317-332; C.F. Dreyer-E. Werner, Il cattolicesimo romano alla luce delle Scritture, Roma, Uceb, 1962, pp. 161-166; Fausto Salvoni, Il culto dei santi, s.l., 1966; Jacques Blocher, La chiesa romana allo specchio, Napoli, Centro biblico, 1971, pp. 216-241; Roberto Nisbet, Ma il Vangelo non dice così, Torino, Claudiana, 199316, pp. 101-106; Giorgio Girardet, Protestanti e cattolici: le differenze, Torino, Claudiana, 1997, pp. 30-31.

[1] Cf. «Confessione di Augusta» (1530) XXI; «Seconda confessione elvetica» (1566) IV-V; «Confessione di Westminster» (1647) XXI; «Confessione di fede battista» (1689) XXII. I primi tre testi si trovano in Romeo Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle chiese cristiane, Bologna, EDB, 1996, mentre l’ultimo in Studi di teologia I (1989/2) N° 2. Per il mondo evangelico contemporaneo, cf. il documento a cura dell’Alleanza Evangelica Mondiale «Una valutazione evangelica del cattolicesimo romano» (1986) 3 in Pietro Bolognesi (a cura di), Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1996, Bologna, EDB, 1997, pp. 266-315.

[1] Nella tradizione evangelica, ci si riferisce alla Bibbia come alla “norma normans non normata” per esprimere il carattere ultimativo e non subordinato della Scrittura rispetto a tutte le altre autorità. Per un’autorevole presa di posizione evangelica sulla questione, cf. le «Dichiarazioni di Chicago» sull’inerranza biblica (1978) e sull’ermeneutica biblica (1982) in Dichiarazioni evangeliche, cit., rispettivamente pp. 132-145 e 177-182. Cf. inoltre, Carl Henry (a cura di), La rivelazione e la Bibbia nel pensiero evangelico contemporaneo, Napoli, Centro biblico, 1973;  René Pache, L’ispirazione e l’autorità della Bibbia, Roma, Uceb, 1978; James Packer, “L’ermeneutica e l’autorità della Bibbia”, Studi di teologia I (1978/1) N° 1, pp. 4-35; Benjamin B. Warfield, L’ispirazione e l’autorità della Bibbia, Caltanissetta, Alfa&Omega, 2001.

[1] Istituzioni della religione cristiana, III.XX.21.

[1] Per quanto riguarda il magistero recente, si veda ad esempio l’enciclica «Mystici corporis» (1943), la Costituzione dogmatica del Vaticano II «Lumen gentium» 8, 48-50 e il CCC 946-948. Per un’introduzione alla teologia cattolica del «corpo mistico», cf. Heribert Mühlen, Una mystica persona, Roma, Città Nuova Ed., 1968.

[1] Per un’esposizione moderna del senso dei «sola, solus» evangelici, cf. la «Dichiarazione di Cambridge» sulla necessità di un ritorno all’Evangelo (1996) in Dichiarazioni evangeliche, cit., pp. 494-501.

[1] «Orientamenti evangelici per pensare il cattolicesimo», 8 in Ideaitalia III:5 (settembre 1999),

Dominus Iesus. Una lettura evangelica

(con particolare riferimento alla IV sezione su “Unicità e unità della Chiesa”)

15/11/2000

La DI è un documento “interno” al cattolicesimo anche se, trattando tra l’altro di ecumenismo, è naturale che sia stato letto anche al di fuori della chiesa cattolica. E’ da apprezzare, pertanto, l’iniziativa del SAE volta ad ascoltare anche una voce evangelica, non chiamata direttamente in causa dal documento ma comunque un soggetto che è interessato ai temi della DI. Farò qualche considerazione generale sul documento per poi concludere con qualche riflessione sulla portata teologica ed ecumenica dello stesso.

1. Innanzitutto, è da notare lo stretto collegamento della DI con il magistero recente della chiesa. Di fatto la DI non è un testo a se stante ma una raccolta di testi cuciti insieme. Al di là del numero di citazioni magisteriali presenti nel testo (102) è da notare come gli elementi caratterizzanti del documento (che sono stati quelli più aspramente criticati da parte protestante) siano ripresi direttamente dal Vaticano II e dalle recenti encicliche (in particolare la “Redemptoris missio”). Per parafrasare il titolo di un celebre romanzo di Remarque, si potrebbe dire: “Niente di nuovo sul fronte cattolico”! Risultano pertanto sproporzionate le reazioni critiche di coloro che hanno visto nel documento una “novità” reazionaria all’interno della chiesa. Al contrario, la DI cita e ricita un magistero trito e ritrito.

2. E’ da apprezzare anche la chiarezza del linguaggio della DI. Finalmente un documento sull’ecumenismo che non indulge nella pratica dell’“ecumenichese”, con tutte le sue finezze retoriche che nascondono i problemi invece di affrontarli! Il gergo ecumenico, a volte, può risultare un ostacolo al dialogo perché vuole fare quadrare il cerchio. La DI, invece, può non essere “ecumenicamente corretta” ma è teologicamente piana. La chiesa cattolica, con tutta la sua sapienza dialettica, parla in modo comprensibile. E’ un parlare duro, spigoloso, da primo della classe, ma è chiaro. Nella babele ecumenica, ci voleva.

3. La DI si caratterizza anche per la profonda onestà intellettuale che la pervade. L’agenda ecumenica della dichiarazione è limpida: in soldoni, si può riassumere così: la chiesa cattolica, nell’aprirsi al dialogo ecumenico, non fa sconti di alcun tipo, men che meno nel campo dell’ecclesiologia. La chiesa cattolica non si “protestantizza”, nel senso che non alleggerisce la sua autocomprensione ecclesiologica. Essa fa ecumenismo nella pienezza del suo considerarsi la chiesa e salvaguardando l’integrità della sua ecclesiologia. Lo scoglio ecclesiologico non viene bypassato, né addolcito, né ridimensionato. L’impianto ecclesiologico attuale è un limite invalicabile. Paradossalmente, anche questo aiuta nel dialogo perché chiarisce le posizioni e gli obbiettivi.

4. Infine, qualche osservazione di merito teologico specialmente sul n.17. Si ribadisce il “governo” del Successore di Pietro sull’unica chiesa e si dice che il primato è del papa “oggettivamente”. Ora, di fronte a ciò che si dà oggettivamente, non c’è altro da fare che arrendersi all’evidenza. Nella “Ut unum sint”, l’attuale papa aveva espresso la disponibilità a modificare le “forme” del primato ma non la “sostanza”, in nessun modo. Se la “sostanza” del papato è data “oggettivamente”, l’ecumenismo della DI sembra essere un rigurgito della “Mortalios animos”: tornate all’ovile del papa. Può l’ecclesiologia darsi “oggettivamente”? Non si dovrebbe dire piuttosto “biblicamente” o “storicamente”? E’ l’ecclesiologia un dato quasi ontologico? E’ possibile una conversione ecumenica delle attuali strutture di governo della chiesa cattolica, date le sue premesse “oggettive”?

5. Nel n.17 della DI e nella “Nota sul termine Chiese sorelle”, si ritorna sulla questione di quali siano gli elementi caratterizzanti l’ecclesialità di una comunità cristiana. Si ribadisce che, tra gli altri, essi sono da ricercare nell’episcopato valido e nell’integra sostanza del mistero eucaristico. Di fronte a questi criteri, molte chiese evangeliche sono propriamente delle “comunità” cristiane, delle chiese di serie B. Ma chi ha il diritto di dare le patenti di ecclesialità agli altri? E’ ancora possibile considerare una forma storica di governo della chiesa (l’episcopato) una «nota ecclesiae» aggiuntiva ed essenziale? Certamente, tutto ciò calza con il darsi “oggettivo” dell’ecclesiologia cattolica. Lo scenario ecumenico della DI prevede una resa unilaterale ed incondizionata delle chiese deficienti al governo del papa?

 

Tesine sull’enciclica “Fides et ratio”

 Seminario tenuto presso l’IFED nell’A.A. 1999-2000

La pubblicazione della Lettera enciclica “Fides et ratio” (FR) avvenuta il 14 settembre 1998 ha riproposto all’attenzione del mondo religioso e dell’opinione pubblica un tema di fondamentale importanza per il cristianesimo, quello del rapporto tra fede e ragione. Le questioni sollevate da FR hanno avuto una vasta risonanza nel dibattito culturale in Italia, a cui hanno partecipato anche intellettuali di area laica e opinionisti di grido. Numerose e variegate sono state le prese di posizione nei confronti dell’enciclica a dimostrazione del fatto che la Chiesa cattolica, anche se raccoglie reazioni diversificate intorno ai propri convincimenti, riesce comunque nell’intento di mettere all’ordine del giorno un tema a lei caro. Tuttavia, al di là del fervore seguito alla sua divulgazione, è presto per valutare la recezione effettiva del documento. Al momento attuale, è difficile dire se FR sia stata una provocazione transitoria già in via di rimozione o se invece essa avrà un’incidenza significativa nel tempo.

A fronte dell’interesse suscitato dall’enciclica in larghi settori dell’opinione pubblica, è da registrare per contro una sostanziale distrazione da parte evangelica. Anche a livello internazionale, FR non sembra aver riscosso l’interesse dei teologi evangelici che invece avrebbero potuto trarre spunto per offrire una riflessione incisiva su questioni che investono direttamente la fede evangelica. Queste “Tesine” vogliono testimoniare il fatto che, nonostante il rumoroso silenzio sin qui evidenziato, gli evangelici sanno “leggere” l’attualità religiosa e culturale e sono interpreti di una prospettiva critica che si nutre dell’identità evangelica.

 

 

  1. Osservazioni generali

 

1. FR presenta in modo esemplare la straordinaria capacità di sintesi intellettuale propria del cattolicesimo magisteriale

La lettura di FR si presenta immediatamente come un esercizio impegnativo. In essa traspare la vastità e la profondità della sapienza cattolica in forma condensata e meditata.

 

1.1  La molteplicità delle prospettive

Nello stile classico delle encicliche, FR è un documento in cui confluiscono una serie di spunti tematici intessuti in un discorso che tende alla sintesi. Una metafora appropriata è, anche in questo caso, quella della “sinfonia”. Per affrontare la questione del rapporto tra fede e ragione, FR getta le basi partendo dalla lettura di alcuni dati biblici, tratti soprattutto dai libri sapienziali e dagli scritti paolini. Il richiamo alla Scrittura è inserito in una cornice teologica che valorizza alcuni riferimenti patristici riassunti nelle espressioni “credo ut intelligam” e “intelligo ut credam”. Alla fondazione biblico-teologica, segue un’analisi storica della cultura e degli orientamenti di pensiero espressi principalmente dalla cultura occidentale. In particolare, viene offerta una rassegna sulle “tappe significative dell’incontro tra la fede e la ragione” che spazia dal Nuovo Testamento ai giorni d’oggi soffermandosi su alcune opzioni filosofiche rintracciabili nella sensibilità contemporanea. In questa ricognizione di ampio respiro, non mancano cenni a tradizioni religiose diverse dal cristianesimo o a culture altre rispetto a quella occidentale. Il discorso di FR evidenzia una grande opera di assimilazione culturale e presenta la capacità del cattolicesimo di offrire una prospettiva unitaria che si nutre di temi biblici e patristici, teologici e filosofici, storici e religiosi, tutti inseriti in una sintesi ricca e suadente. FR dà voce ad una vera e propria visione cattolica della cultura e propone una lettura cattolica del panorama culturale contemporaneo.

 

1.2  I riferimenti a fonti, autori e scuole di pensiero

Nell’esposizione del discorso su fede e ragione, FR fa uso abbondante di riferimenti a testi, personaggi, opere e orientamenti della storia della chiesa e più in generale della cultura. Anche questo è un indice della familiarità con cui il sistema del cattolicesimo si districa nelle pieghe della storia e nell’universo della cultura. Comprensibilmente, nel testo abbondano le citazioni o i rimandi ai pronunciamenti del magistero cattolico nel corso dei secoli[1]. Tuttavia, FR spazia oltre i confini magisteriali e, a questo proposito, interessante è la scelta dei pensatori, filosofi e teologi solo menzionati oppure citati[2] così come delle correnti di pensiero evocate[3]. L’impressione è di trovarsi di fronte ad un pensiero che attinge ad un bagaglio di conoscenza ampio ed assimilato.

 

1.3  I silenzi significativi

FR desta motivi d’interesse per quello che dice ma anche per quello che non dice. I suoi silenzi sono altrettanto rivelatori delle sue asserzioni esplicite. La straordinaria abilità di sintesi che è propria del cattolicesimo non è banalmente onnicomprensiva ma risponde ad una logica selettiva che comunque è funzionale alla cattolicità culturale dell’enciclica. Dato che FR non offre un inventario indiscriminato, anche le esclusioni non sono casuali. Da segnalare è soprattutto la mancanza di qualsiasi riferimento al pensiero protestante ed evangelico che pure ha riflettuto a fondo sul rapporto tra fede e ragione. Non solo il protestantesimo liberale è assente ma anche una tradizione di pensiero più marcatamente evangelica è altrettanto ignorata. Dei Riformatori non c’è l’ombra e lo stesso discorso può essere esteso all’ortodossia protestante, a filosofi come Jonathan Edwards o al neocalvinismo. Se da un lato FR tenta di includere la tradizione dell’ortodossia orientale (74), dall’altra esclude quella del protestantesimo. Evidentemente, il baricentro del tomismo su cui poggia l’enciclica può pendere verso una direzione ma non verso l’altra.

 

 

2. FR obbliga a fare i conti col pensiero di Tommaso d’Aquino e con la tradizione tomista

Fin dal suo incipit, FR ha un inconfondibile afflato tomista. L’enciclica può essere considerata un’attestazione autorevole del ruolo che il tomismo ha avuto e ha tuttora nel plasmare la visione del mondo cattolica, nella fattispecie il rapporto tra fede e ragione. Senza l’impalcatura fornita del tomismo, FR sarebbe impensabile. FR è esplicita nel sostenere la “novità perenne” del pensiero di Tommaso (43-44) e nel rivendicare la fecondità della filosofia dell’essere espressa ad esempio nella costituzione dogmatica Dei Filius del Vaticano I (52-53), nell’enciclica Aeterni Patris (57) e nel rinnovamento neotomista del XX secolo (58-59). Il tomismo è la traiettoria che unisce il cattolicesimo medievale a quello post-conciliare e che permette alla chiesa cattolica di pensare il futuro. Esso rappresenta “la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto” (78).

Se si prende sul serio l’impianto di FR, si evince che il cattolicesimo non può essere disgiunto dal tomismo. L’impronta tomista è una traccia indelebile del cattolicesimo, non solo di FR, sia nel suo sviluppo storico che nelle sue opzioni fondamentali. Anche se diverse espressioni del cattolicesimo contemporaneo sembrano proporre delle versioni o interpretazioni del tomismo segnate da una certa fedeltà creativa, se non proprio da una palese discontinuità rispetto all’opera di Tommaso, al tomismo classico ed al neotomismo, nondimeno il discorso di FR riconduce la riflessione cattolica entro l’alveo consolidato della tradizione tomista in senso lato. In ciò, l’enciclica non fa altro che ribadire un dato intrinseco al sistema del cattolicesimo, cioè il ruolo nevralgico del tomismo. L’operazione di rivalorizzazione della cornice tomista impone considerazioni più ampie in merito al modo in cui la realtà multiforme ed unitaria del cattolicesimo può e deve essere interpretata. FR è un’ulteriore conferma che l’analisi del cattolicesimo passa attraverso il percorso obbligato della valutazione critica del tomismo. Il cattolicesimo non è semplicemente coestensivo rispetto al tomismo ma la matrice tomista è imprescindibile per il cattolicesimo. Ciò significa che non si può tentare di capire il cattolicesimo in modo sufficientemente plausibile senza fare i conti col tomismo.

 

 

3. FR è esplicita nel rigettare il “sola Scrittura”, “principio formale” della Riforma e asse portante della fede evangelica

L’enciclica è molto chiara nell’assumere posizioni critiche nei confronti di numerosi orientamenti di pensiero presenti nel panorama odierno. Tra questi, il papa annovera tra i pericoli da cui guardarsi il “biblicismo”, che viene definito quella “tendenza fideistica” che “tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo” (55). Il testo continua affermando che “la Sacra Scrittura …  non è il solo riferimento per la Chiesa” in quanto “la regola suprema della propria fede … le proviene dall’unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente” (cf. 65). Il riconoscimento della triade Tradizione-Scrittura-Magistero quale riferimento veritativo plurimo colloca l’enciclica nel solco del cattolicesimo tridentino. In FR si ritrova la dottrina tradizionale che i Riformatori del XVI secolo e gli evangelici dei secoli successivi hanno decisamente rigettato in nome del sola Scrittura. Anzi, a ben vedere, FR segna addirittura un passo indietro rispetto alla «Dei verbum» del concilio Vaticano II che aveva evitato il linguaggio della duplice presenza della parola di Dio (“sia… sia”), riproposto invece dal papa quando scrive che “la parola di Dio è presente sia nei testi sacri sia nella Tradizione” (55). La ripresentazione della dottrina tridentina in chiave polemica nei confronti dell’orientamento della Riforma (anche se la Riforma non viene citata esplicitamente nel contesto del paragrafo) offre uno spaccato indicativo della natura e del funzionamento del sistema del cattolicesimo. Riprendendo Trento anche sorvolando il Vaticano II, FR manifesta la capacità del sistema del cattolicesimo di rinnovarsi senza riformarsi, di riprendere tesi tradizionali in contrasto con quelle progressiste senza per questo indicare una cesura tra le due prospettive. In piccolo, FR riproduce la dinamica dello sviluppo della dottrina cattolica.

Inoltre, una considerazione deve essere fatta in merito al rapporto che intercorre tra il sistema del cattolicesimo e la fede evangelica. Da un lato, FR considera il sola Scrittura protestante un “pericoloso ripiegamento”; dall’altro, il sola Scrittura è un elemento essenziale, imprescindibile, non negoziabile della fede evangelica. Alla luce di questa contrapposizione, si deve prendere atto che la triade Tradizione-Scrittura-Magistero non è compatibile col sola Scrittura. Nella logica della fede evangelica, o si dà uno, o si dà l’altro e se si dà uno non si dà l’altro. In questo senso, la «triade» cattolica è irriducibile al «sola» evangelico e viceversa. Mentre FR, in continuità col cattolicesimo tridentino, ingloba la Bibbia nella Tradizione e le permette di parlare solo attraverso la voce del Magistero, la fede evangelica riconosce la Bibbia quale “norma normans non normata”.

 

B. Osservazioni specifiche

 

4. FR imposta la comprensione del rapporto tra fede e ragione sulla base del motivo natura-grazia

Si è già fatto riferimento al fatto che il tomismo di FR è connaturato al cattolicesimo. FR non si limita ad indicare genericamente la “perenne attualità” del tomismo ma affronta il rapporto tra fede e ragione sulla base della comprensione tomista del problema. Tale orientamento si fonda sul motivo natura-grazia che innerva la tradizione tomista e ne costituisce uno degli elementi caratterizzanti. La relazione tra fede e ragione può essere pensata deduttivamente come derivante dal modo in cui viene pensata l’articolazione tra natura e grazia. Quest’ultima sta a monte rispetto alla prima. In un’espressione programmatica, FR afferma che “come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione” (43; cf. anche 75). Il sostrato teologico del motivo natura-grazia è particolarmente evidente nel modo in cui FR concepisce lo statuto della conoscenza, l’autonomia della ragione e le conseguenze del peccato.

 

4.1 FR ripropone la distinzione e la coniugazione tomiste degli ordini della conoscenza 

L’enciclica ribadisce la tesi tomista sancita dai concili Vaticano I e II dell’esistenza di due ordini di conoscenza, ciascuno dei quali ha propri principi e oggetti della conoscenza (9, 13, 53, 55, 67, 71, 73, 75, 76). La fede e la ragione operano quindi in ambiti distinti anche se non disgiunti. Se, da un lato, la ragione ha un proprio spazio d’autonomia rispetto alla fede, dall’altro la fede non può prescindere dall’apporto della ragione che, pur afferendo ad un altro ordine di conoscenza, è tuttavia indispensabile per un retto esercizio della fede. La ragione si apre alla fede e la fede si innesta sulla ragione. In linea con la visione tomista, FR attribuisce alla fede un grado di ulteriorità che assume il dato “naturale” della ragione e lo porta a compimento.

Se adeguatamente comprese e praticate, tra le due non vi è rapporto conflittuale ma armonico e cooperativo. Non a caso, “la fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità” (incipit).

In prospettiva evangelica, il quadro tomista di FR appare gravato da un vizio di fondo riguardante lo sdoppiamento degli ordini della conoscenza che legittima la divisione della conoscenza e favorisce l’incunearsi di spazi di autonomia. Secondo la Bibbia, tutta l’esistenza dev’essere vissuta coram Deo e ciò esclude che la ragione possa essere avulsa dalla fede quasi fosse una facoltà autosussistente o distaccata dalla realtà di Dio. Pur articolandosi in una pluralità di modalità aventi ciascuna una propria specificità, la vita nella sua globalità trova nell’alleanza rotta o ristabilita con Dio la propria cornice di riferimento. Qualsiasi attività umana viene esperita nell’ambito dell’alleanza tra Dio e l’uomo. La ragione quindi è essenzialmente religiosa. Il rapporto tra fede e ragione deve essere pensato nell’orizzonte unificante del coram Deo e non in quello dissociante di FR.

 

4.2 FR riconosce alla ragione un’insostenibile autonomia

In forza dello sdoppiamento degli ordini della conoscenza, uno dei rilievi qualificanti con cui FR denota la ragione è la sua autonomia rispetto alla fede. Tale autonomia riflette “l’autonomia della creatura” (15) e si manifesta sul piano metodologico (13, 67) e normativo (67, 73, 77). All’interno del quadro tomista in cui “la fede non umilia l’autonomia della ragione” (16), l’autonomia viene come concepita come un’istanza ed un’aspirazione “legittima” (75, 79) e “giusta” (75, 106).

La critica evangelica a quest’impostazione è radicale. Alla luce dell’insegnamento biblico, non si dà alcuna autonomia, comunque definita, rispetto a Dio e alla sua rivelazione non solo per quanto riguarda la fede ma anche per quanto concerne la ragione. Non solo: se l’esistenza è coram Deo, tutta la vita, tutti gli esseri, tutte le facoltà, tutti i saperi, non possono prescindere dal legame costitutivo col Creatore e dal vincolo veritativo della sua parola. Al tomismo di FR bisogna contrapporre una visione riformata che riconosce le prerogative di Dio e lo statuto creazionale della realtà.

 

4.3 FR sminuisce l’importanza degli effetti noetici del peccato

In continuità con la visione non tragica del peccato propria del tomismo, anche FR presenta una dottrina biblicamente deficitaria del peccato in relazione alla sua incidenza sulla ragione. Della ragione si riconoscono la fragilità, la frammentarietà e i limiti (13, 43) nonché una congenita debolezza (75) e una certa imperfezione (83). Il peccato interviene sull’assetto della ragione portando ferite, ostacoli, offuscamento, debilitazione e disordine (23, 82, 71) anche se permane la “capacità” della ragione di conoscere la dimensione trascendente “in modo vero e certo” (83), di cogliere alcune verità (67), d’innalzarsi, se vuole, verso l’infinito (24) e di giungere fino al Creatore (8). Il fatto stesso che FR si riferisca spesso alla ragione in senso assoluto evidenzia l’effettiva intangibilità della ragione rispetto al peccato. In ultima istanza, FR è un invito a nutrire “fiducia nelle capacità della ragione” (56) a dimostrazione del fatto che il peccato ha avuto un’incidenza marginale permettendole di mantenere uno statuto sostanzialmente intatto.

In un’ottica evangelica, l’enciclica non rende ragione dell’insegnamento biblico riguardante la rottura dell’alleanza e degli effetti radicali che essa ha determinato in ogni ambito della vita, ragione ed esercizio della ragione inclusi. Per la Bibbia, il peccato ha introdotto uno stravolgimento totale a tal punto che non si dà più una ragione solo parzialmente intaccata dal peccato ma interamente intrisa di peccato. Gli effetti noetici del peccato non alimentano nessuna fiducia nelle capacità intrinseche della ragione ed esigono che venga abbandonata ogni pretesa di assoluta o parziale estraneità o neutralità della ragione rispetto al peccato. L’unica speranza che si può coltivare risiede nel messaggio di salvezza di Gesù Cristo che è rivolto alla redenzione del soggetto ragionante e alla riforma dei criteri della ragione. 

5. FR offre un’interpretazione del messaggio biblico e della storia del pensiero che è funzionale all’impostazione di fondo

Come si è notato in precedenza, FR argomenta la visione tomista del rapporto tra fede e ragione tentando di delineare un fondamento teologico nutrito di tematiche bibliche e patristiche. Il richiamo alla Bibbia e la volontà di ancorare il discorso biblicamente chiamano in causa coloro per i quali la Scrittura è, per usare i termini dell’enciclica, “l’unico punto di riferimento veritativo” (55).

 

5.1 L’interpretazione biblica

Nel presentare le piste bibliche, FR dedica una certa attenzione agli scritti sapienziali. Da questi testi biblici emerge “una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede” (16) e si evince il fatto che “conoscere a fondo il mondo e gli avvenimenti della storia non è … possibile senza confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera” (idem). In più, viene sostenuto che, secondo la sapienza d’Israele, “la ragione deve rispettare alcune regole di fondo” tra cui spicca il “timor di Dio” (18). Ancora: FR asserisce che per l’AT la conoscenza “suppone un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione” (21). In questi casi, l’orizzonte profondamente unitario della Scrittura viene presentato adeguatamente. Successivamente, comunque, queste affermazioni vengono prima mitigate, poi stemperate e di fatto annullate dalla contestuale rivendicazione dell’autonomia della ragione che cozza contro la prospettiva unitaria degli scritti sapienziali. Il corretto riconoscimento della radicale unità della visione biblica appare in netta contraddizione con l’attribuzione dell’autonomia della ragione postulata dal tomismo di FR. Se le premesse sapienziali sono rispettate, non si potrà arrivare a conclusioni tomiste che le stravolgono.

Un discorso simile riguarda l’interpretazione dei testi paolini, in particolare Rm 1-2. In questi capitoli, l’apostolo chiama in questione la “piena e assoluta autonomia” dell’uomo (22) che ha accecato i nostri progenitori con l’illusione di essere “sovrani e autonomi” (idem). Anche in questo frangente, l’apprezzabile sintesi del discorso paolino, con tutte le sue implicazioni per il rapporto tra fede e ragione, viene rimpiazzata con la sintesi tomista che invece riconosce l’autonomia della ragione e concepisce la ragione come una facoltà a se stante rispetto alla fede. Proprio i termini che Paolo contesta vengono ripresi e ripresentati da FR. Anche gli effetti nefasti del peccato che Paolo espone in Rm 1-2 sono ridimensionati laddove si afferma che “la Sacra Scrittura… presuppone sempre che l’uomo, anche se colpevole di doppiezza e di menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità limpida e semplice” (82). L’attribuzione di questa “capacità” noetica si può accordare con l’insegnamento di Paolo solo se il testo biblico viene letto con categorie tomiste.

Il richiamo alla Bibbia, pur puntuale nell’esposizione dei dati salienti, appare quindi un esercizio strumentale e ininfluente ai fini della determinazione del pensiero di FR che trova ispirazione in altri orientamenti e in altre fonti.

 

5.2 L’interpretazione patristica

Un discorso analogo, anche se di minor peso teologico per la fede evangelica, riguarda la lettura patristica di FR, in particolare di Agostino e dell’agostinismo. Uno dei capitoli dell’enciclica riprende l’espressione che qualifica l’approccio agostiniano: “credo ut intelligam”. Secondo questa prospettiva, la fede è l’atto sorgivo della conoscenza, l’elemento fondante della ragione, non un dato parallelo o semplicemente posto accanto alla ragione. L’impianto tomista di FR, pur richiamando il “credo ut intelligam”, postula invece la distinzione e la reciproca autonomia di “fides et ratio”. La tradizione del “credo ut intelligam” non si sposa con quella della “fides et ratio” in quanto la coniugazione della relazione è profondamente diversa. Nella prima, credere è condizione del conoscere e alla fede viene riconosciuta una funzione presupposizionale; nella seconda, la fede è invece giustapposta alla ragione e, al massimo, svolge un ruolo integrante o elevante. Il riferimento al detto agostiniano da parte di FR appare un’operazione teologicamente surrettizia.

 

 

6. FR costituisce uno spunto per gli evangelici per riconsiderare il rapporto tra fede e ragione in un’ottica evangelica

Purtroppo l’enciclica non ha suscitato un grande interesse nel mondo evangelico e quindi non ha prodotto reazioni significative da parte della teologia evangelica. Le ragioni di tale silenzio andrebbero ricercate, ponderate e stigmatizzate anche perché l’attenzione critica all’attualità religiosa e teologica dovrebbe essere parte integrante dell’esercizio del discernimento evangelico. Per un evangelico medio la discussione sul rapporto tra fede e ragione può apparire una sterile disquisizione dottrinaria lontana dall’esperienza del cammino cristiano e della testimonianza. Eppure, come si è appena intravisto, nel modo in cui si concepiscono e si relazionano la fede e la ragione sono coinvolti snodi di capitale importanza per la fede evangelica: la questione della verità, lo statuto della conoscenza, gli effetti del peccato, l’autorità della Scrittura, l’analisi della cultura, ecc. In un mondo segnato dal pluralismo religioso ed ideologico, una riflessione evangelica su questi temi è necessaria se si vuole che la vita cristiana e la testimonianza siano solide, vigorose, quindi non poste alla mercé delle influenze del tempo. La valutazione critica di FR può essere un’occasione per impiegare, valorizzare e promuovere un’apologetica autenticamente evangelica.

 

Padova, 8 aprile 2000



[1] A questo proposito si possono elencare le fonti citate:

– concili: sinodo di Costantinopoli, Calcedonia, Toledo, Braga, Viennese, Lateranense IV, Lateranense V, Vaticano I, Vaticano II;

– encicliche: Redemptor hominis (1979), Veritatis splendor (1993), Aeterni patris (1879), Humani generis (1950), Pascendi dominici gregis (1907), Divini redemptoris (1937), Dominum et vivificantem (1986);

– lettere apostoliche: Tertio millennio adveniente (1995), Salvifici doloris (1984), Lumen ecclesiae (1974);

– testi liturgici: Missale romanum;

– altri testi del magistero: §§33-34, 41, 43, 52, 54, 61, 67, 92, 94, 96-97, 99, 103, 105-106.

[2] (nell’ordine in cui compaiono in FR): Tommaso, Anselmo, Agostino, Origene, Giustino, Clemente alessandrino, i Padri cappadoci, Dionigi l’areopagita, Pascal, Aristotele, Tertulliano, Francesco Suarez, Gregorio nazianzeno, John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Etienne Gilson, Edith Stein, Vladimir S. Solov’ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky, Kierkegaard, Bonaventura, lo pseudo Epifanio.

[3] (in ordine di comparizione): idealismo, umanesimo ateo, mentalità positivista, nichilismo, fideismo, tradizionalismo radicale, razionalismo, ontologismo, marxismo, modernismo, teologia della liberazione, tradizioni religiose e filosofiche dell’India, della Cina, del Giappone, degli altri paesi asiatici e di quelli africani (72), eclettismo, storicismo, scientismo, pragmatismo, postmodernità.

 

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